«Cioè?»
«Ricorri a un po' di fai-da-te.»
«Claudel darebbe fuori di matto.»
«Perché? Lui dice che le ossa sono antiche. E non vede motivo di approfondire il caso. Tu stai semplicemente facendo un po' di ricerche supplementari.»
«Non è il mio lavoro.»
«A quanto pare Claudel pensa che non sia nemmeno il suo.»
«Claudel non è interessato ai miei suggerimenti, ma se provo a far qualcosa che solo lontanamente assomiglia al lavoro degli investigatori, diventa esageratamente ostile.»
«Ascolta. Non devi ricavare una serie TV da questa storia. Devi solo ficcare un po' il naso in giro e vedere cosa salta fuori.»
Riflettei sulle sue parole, mentre Anne scriveva, cancellava e riscriveva il trentaquattro orizzontale nel suo schema. Su una cosa aveva ragione. Cosa c'era di male a controllare qualche vecchio atto, i registri dell'ufficio delle tasse e i documenti del catasto? Se Claudel aveva ragione, avrei finito col lavorare con gli archeologi in ogni caso. E poi lui sarebbe stato preso da questa operazione di polizia cui aveva accennato Ryan. E se una volta più libero, avesse scoperto che stavo facendo qualche indagine, sarebbe andato su tutte le furie ma si sarebbe anche sentito obbligato a occuparsi del caso, giusto per impedirmi di scoprire qualcosa al posto suo.
In quel momento, il citofono trillò. Quando andai alla porta, i tecnici della Scientifica annunciarono il loro arrivo. Aprii il portone e quando arrivarono nell'appartamento, indicai loro la vetrata danneggiata e il quadro di Katy chiedendo se per cortesia potevano iniziare dal soggiorno.
Mentre i tecnici scattavano foto e rilevavano le impronte, Anne e io ci ritirammo nelle rispettive stanze per vestirci, pettinarci e truccarci. Durante la mia toeletta, valutai le diverse opzioni.
Era venerdì. Gli uffici pubblici il fine settimana erano chiusi. Se avessi esaminato il terzo scheletro quel giorno, non avrei potuto andare né in tribunale né in comune fino al lunedì successivo.
Mentre potevo lavorare in Istituto, quando volevo, anche durante il fine settimana, se fosse stato necessario.
Decisione presa.
Ancora una volta, l'analisi completa del terzo scheletro era rimandata.
Dopo aver rifornito Birdie di cibo e di acqua, andai dai tecnici della Scientifica. Per il momento, niente.
Stavo per sollevare la cornetta, quando Anne comparve in camera da letto. Indossava gli stivali e il giaccone che aveva rifiutato la sera prima. La sciarpa rosa d'angora era già al suo posto, mentre i guanti e il cappello erano ancora tra le sue mani.
«Stai uscendo?» domandai.
«No. Stiamo uscendo» mi corresse Anne.
«E la visita al museo?»
«L'arte è eterna. Sarà lì anche domani. Oggi, mi do alle indagini. Visto? La mia vita è già multidimensionale. Tu e io. Cagney e Lacey. Una vera figata.»
«Sicura?»
«Sicurissima.»
«Cagney e Lacey erano investigatori fatti e finiti, con tanto di distintivo e pistola. Noi siamo piuttosto Miss Marple e una delle sue amiche del circolo del giardinaggio. Comunque, va bene. Facciamo un tentativo. I tecnici della Scientifica se ne andranno quando avranno finito. Controllo i messaggi in ufficio e usciamo.»
Chiamai l'Istituto, inserii il numero della mia casella vocale e il codice di accesso. Un messaggio. Alle nove e quarantatré della sera prima.
Le parole della donna scatenarono nella mia testa una ridda di ipotesi, una più fosca dell'altra.
12
Cercai istericamente una penna sul ripiano della specchiera. Anne me ne porse una all'istante.
«Dottoressa Brennan, sento che devo fare quest'ultimo tentativo, o non riuscirò più a guardare in faccia me stessa.»
Cercai di registrare i particolari della voce. Anziana. Femminile.
«Ho chiamato l'altro giorno per quell'articolo comparso su "Le Journal".»
Una pausa. Come durante la telefonata precedente, udii un sottofondo di cinguettii vagamente familiare.
«Credo di sapere chi sono i morti e perché sono morti.» Il tono di voce oscillò tra lo scoraggiato e il dubbioso.
«Forza» la sollecitai sottovoce. «Chi sei?»
«Lei sa già il mio nome.»
«No. Non lo so!»
Il mio grido suscitò in Anne un moto di sorpresa.
«Se vuole mi può chiamare al 514-937...»
«Perfetto!»
Anne mi osservò scrivere il numero, interrompere la comunicazione e richiamare.
Da qualche parte sull'isola di Montréal un telefono squillò dieci, undici, dodici volte.
Abbassai la cornetta e ricomposi il numero.
Un'altra decina di squilli.
«Maledizione!»
Interruppi la comunicazione e gettai la cornetta sul letto, il corpo teso per la delusione. Mi alzai e presi a camminare per la stanza, poi ripresi la cornetta e provai a richiamare.
Nessuna risposta.
«Alza quel maledetto telefono!» gridai.
Che fare? Chiamare Claudel o Charbonneau e dar loro il numero? Chiamare Ryan? Quei tre probabilmente erano immersi nella loro massiccia operazione congiunta e non avevano certo tempo per un numero di telefono.
Attaccai, presi le chiavi e corsi in garage a prendere il portatile dal bagagliaio dell'auto. Quando tornai in camera da letto, Anne era seduta sul letto, le braccia conserte e un piede che dondolava nervosamente. Mi osservò avviare il computer e digitare il numero di telefono in un motore di ricerca senza commentare.
Nessun risultato. Il motore suggeriva di controllare l'ortografia o provare con un'altra parola.
«Come diavolo faccio a controllare l'ortografia di un numero, razza di demente?»
Provai un altro motore di ricerca. Poi un altro.
Niente. Solo gli stessi utilissimi suggerimenti.
«Siete davvero molto bravi!»
Ripresi la cornetta, digitai un altro numero, richiesi un operatore e posi la mia domanda.
No. La chiamata di mercoledì non era ancora stata registrata. Perché no? Queste cose hanno bisogno di tempo. Bene, allora scriviti questo numero e vedi se riesci a capire a chi appartiene.
Ributtai la cornetta sul letto, andai alla specchiera, cercai un paio di guanti e richiusi con rabbia il cassetto.
Mentre infilavo il guanto destro, il sinistro mi cadde di mano. Mi chinai per raccoglierlo, mi cadde di nuovo, lo calciai contro la parete, andai a recuperarlo e finalmente ci infilai dentro la mano.
Quando mi voltai, Anne mi stava osservando, le braccia ancora conserte, sul viso un'espressione divertita.
«Questa sarebbe la nostra famosa specialista forense impegnata in una dimostrazione sull'arte della crisi isterica?» mi chiese Anne in tono da maestrina.
«Secondo te questa è una crisi isterica? Fammi girare le scatole e poi vedrai che cos'è una crisi isterica alla Tempe Brennan.»
«Non ti vedevo così agitata da quella volta in cui hai beccato Pete che si scopava la tipa dell'agenzia di viaggi.»
«Aveva un'agenzia immobiliare.» Non riuscii a non sorridere. «Quella sì che aveva un culo enorme.»
«Lasciami indovinare. Non siamo contente del messaggio che ti hanno lasciato?»
«No. Non siamo affatto contente.»
Riferii per sommi capi le chiamate della signora Gallant/Ballant/Talent.
«La cara signora probabilmente sarà uscita a comprarsi l'adesivo per la dentiera. Ha già chiamato due volte. Vedrai che chiamerà ancora.» Di nuovo, Anne mi parlava come una maestrina paziente. «E se non telefona, hai sempre il suo numero e la puoi chiamare tu. Dai, con il numero di telefono, non sarà difficile farsi dare il nominativo corrispondente da un qualsiasi servizio di informazioni telefoniche.»
Non riuscii a dissimulare la mia agitazione.
«Anne, quella donna ha detto che sapeva chi erano i morti e perché erano morti. Se questo è vero, la cara nonnina può dare una svolta alle indagini. Certo, potrebbe anche essere una mitomane. Perciò vorrei parlare con lei prima di mettere Claudel su una falsa pista. Hai ragione, devo fare un altro tentativo per cercare di parlarle di persona. Del resto, quella donna ha chiamato me, non la polizia.»
«Avrei un'altra domanda.»
Sollevai la mano e la invitai a parlare.
«Come pensi di abbottonarti il giaccone?»
Mi sfilai i guanti e glieli tirai addosso.
Per la seconda volta in una settimana, entrai in un parcheggio a pagamento nel centro storico. Il cielo era plumbeo, l'aria carica di neve.
«Chiuditi bene il giaccone» dissi ad Anne mentre alzavo la cerniera del mio parka.
«Dove stiamo andando?»
«In un posto che si chiama Hotel de Ville.»
«Dobbiamo prenotare una stanza?» La sua voce mi arrivò attutita dai molti giri di angora rosa.
«È il palazzo del municipio. Si trova a quattro isolati da qui.»
Situato al centro Place Jacques Cartier, il municipio di Montréal è uno stravagante palazzo di epoca vittoriana tutto rame e pietra, costruito tra il 1872 e il 1878. Al primo sguardo, si direbbe che il suo architetto non avesse le idee chiare su quando chiudere il cantiere. Tetto mansardato? Sì, très parisien. Colonne? Perché no. Porticati? Ma certo. Grondaie, abbaini, balconi, cupola, orologio? Sì. Sì. Sì. E ancora sì.
Nonostante l'incendio del 1922, la struttura dell'Hotel de Ville rimase pressoché intatta, e l'edificio fu rinnovato e oggi è una delle mete preferite di residenti e visitatori, nonché uno dei suoi simboli più affascinanti.
«Certo che nessuno potrebbe confonderlo con il municipio di Clover» disse Anne, mentre salivamo la gradinata frontale.
Indicai un balcone sul portone principale. «Vedi quello?»
Anne fece di sì con la testa.
«Charles de Gaulle pronunciò il suo famoso discorso "Vive le Québec libre" proprio da quel balcone.»
«Quando?»
«Nel '67.»
«E allora?»
«Ai separatisti piacque molto.»
Nonostante il suo moderno status di meta turistica, l'Hotel de Ville resta il principale centro amministrativo della città. Nonché custode delle informazioni che stavo cercando. Speravo.
Anne e io entrammo nell'atrio e fummo subito accolte da un odore di riscaldamento e di lana bagnata. In fondo all'atrio notai uno sportello con la scritta RENSEIGNEMENTS. Informazioni.
Quando mi avvicinai, l'impiegata seduta dietro il bancone alzò lo sguardo. Era una ragazza sulla ventina, con una torreggiante chioma bionda che aggiungeva un bel po' di centimetri alla sua altezza.
La ragazza trattenne a stento uno sbadiglio, mentre le spiegavo che cosa cercavo. Prima che avessi finito, mi indicò con il braccio carico di bracciali di plastica un tabellone con l'elenco dei vari uffici presenti nell'edificio.
«Accès Montréal» mi disse.
«Merci» risposi.
Anne e io ci inoltrammo nel dedalo di corridoi e dopo poco raggiungemmo l'ufficio che la receptionist ci aveva indicato.
Qui, incontrammo una versione più anziana, più massiccia e decisamente più cortese dell'impiegata delle informazioni. La donna ci salutò nel tipico francoinglese di Montréal.
«Bonjour. Hi.»
Le spiegai il mio problema in francese.
La donna si lasciò cadere la catenella con gli occhiali sul petto e replicò in inglese.
«Se avete un indirizzo, posso controllare il numero catastale e il numero del lotto.»
Probabilmente la guardai con aria molto confusa, perché subito l'impiegata aggiunse: «Il numero catastale definisce la porzione di terreno su cui sorge l'edificio. Ma ancora più importante è il numero del lotto, perché è quello che permette di fare indagini sulla storia della proprietà presso l'ufficio del Registre foncier du Québec, che si trova al Bureau d'Enregistrement».
«Si trova qui?»
«No. Al Palais de Justice. Secondo piano. Stanza 2175.»
Scrissi su un foglio l'indirizzo della pizzeria e lo posai sul bancone.
«Non dovrebbe volerci molto.»
Infatti fu così. Dopo dieci minuti, la donna tornò con i numeri. La ringraziai e uscimmo dall'ufficio.
I tre diversi palazzi di giustizia di Montréal si trovano tutti a ovest del municipio. Mentre percorrevamo Rue Nôtre-Dame, Anne studiò le vetrine dei caffè e dei negozi che incontravamo, si fermò ad accarezzare un cavallo, rimase a bocca aperta di fronte alla bellezza dello Château Ramezay, rise delle automobili parcheggiate e imprigionate nella neve dal passaggio degli spazzaneve.
Dal punto di vista architettonico, il municipio e il moderno tribunale hanno ben poco in comune, a parte il fatto di essere entrambi degli edifici.
Prima di entrare, presi il cellulare e provai a chiamare la signora Gallant/Ballant/Talent.
Niente.
Come il giorno della mia deposizione, il tribunale era affollato di avvocati, magistrati, giornalisti, guardie di sicurezza e persone preoccupate in attesa. Nell'atrio regnava un'animata confusione, e ogni faccia aveva l'aria di volere essere altrove.
Anne e io salimmo in ascensore fino al secondo piano e andammo direttamente alla stanza 2175. Quando arrivò il nostro turno, spiegai che cosa cercavo, questa volta a un uomo basso e calvo che aveva la forma di un vaso per i biscotti.
«Bisogna pagare» disse il solerte impiegato.
«Quanto?»
Mi disse la cifra.
Gli passai il denaro e lui mi rilasciò una ricevuta.
«Questo le permetterà di fare le sue ricerche per tutta la giornata.»
Gli presentai il numero catastale e il numero del lotto.
L'impiegato studiò il foglietto. Poi alzò la testa e mi guardò spingendosi gli occhiali dalla spessa montatura di plastica nera in cima al naso.
«Questi numeri indicano un edificio piuttosto antico. E tutto ciò che risale a prima del 1974 non può essere ricercato a computer. Questo significa che ci vorrà più o meno tempo, a seconda di quanti cambiamenti di proprietà si sono verificati.»
«Ma è possibile sapere il nome dei vari proprietari?»
L'impiegato annuì. «Ogni atto di cambiamento di proprietà viene registrato dalle autorità provinciali.» Prese il foglietto. «Adesso che cosa c'è in questo posto?»
«L'edificio ha una serie di unità abitative ai piani superiori e alcune piccole attività commerciali al piano terreno. La porzione che interessa a me attualmente è una pizzeria.»
L'impiegato scosse la testa. «Se si tratta di locali adibiti a uso commerciale, non le sarà possibile sapere quali attività vi si sono svolte, a meno che i vari proprietari non l'abbiano indicato sull'atto.»
«E come devo fare per saperlo?»
«Forse può controllare sulla documentazione fiscale depositata all'Ufficio delle tasse. O forse all'ufficio che rilascia le licenze commerciali.»
«Ma consultando quei documenti, è sicuro che posso risalire al nome dei proprietari?»
L'impiegato annuì.
«È già qualcosa» dissi.
L'uomo mi indicò una postazione informatica libera in fondo alla stanza. «Se cerca qualcosa antecedente al 1974, le spiegherò come consultare questi registri.»
Andai al terminale, mi tolsi il giaccone e lo appesi allo schienale della sedia. Anne mi seguì.
Mentre appendevo la borsetta sopra il giaccone, mi voltai verso di lei.
«Anne, non è necessario che tu stia lì seduta a guardarmi mentre scrivo su una tastiera e sfoglio vecchi registri polverosi.»
«Per me non c'è problema.»
«Ascolta, Anne. Le distrazioni che sei venuta a cercare a mille e cinquecento chilometri da casa tua non si trovano in questi registri.»
«Sempre meglio che cucinare e congelare manicaretti per famigliari e parenti, no?»
«Non hai voglia di andare a fare un po' di shopping?»
Anne era in una fossa delle Marianne di depressione. Stare a lì a guardare me non l'avrebbe di certo tirata su di morale.
«Vai alla basilica. Trova un posticino dove mangiare. E quando ho finito ti chiamo sul cellulare.»
«E se poi ti scoraggi e ti fai venire un'altra delle tue crisi isteriche?»
Le misi una mano sulla spalla.
«Forza, Anne. Vai e divertiti a fare shopping. Qui hai già fatto tutto quello che potevi fare.»
Tre ore dopo, ero ancora immersa nelle mie ricerche.
La ricerca a computer era durata quaranta minuti, di cui trentasette per capire che cosa stavo facendo, e tre per stampare le informazioni relative all'attuale proprietario dell'edificio.
Invece, ricercare nei faldoni di atti rilegati aveva richiesto un tempo vicino al millennio.
L'impiegato era stato gentile e disponibile, e con pazienza aveva preso il mio denaro e fotocopiato la documentazione di tutti i cambiamenti di proprietà che avevo trovato.
Durante le mie ricerche, avevo scoperto diverse cose.
Claudel aveva ragione circa l'età dell'edificio. Il terreno su cui sorgeva, in precedenza faceva parte dello scalo ferroviario della città. In seguito, la proprietà era cambiata diverse volte.
Mentre studiavo il mio fascicolo di fotocopie, mi saltò all'occhio un nome.
L'avevo già sentito.
Perché?
Era un politico locale? Un cantante?
Fissai il nome, cercando un collegamento.
Un personaggio televisivo? Un caso a cui avevo lavorato? Qualcuno che conoscevo?
La data del cambiamento di proprietà era precedente al mio primo incarico a Montréal. Allora perché quella sensazione?
E poi, di colpo, mi venne in mente.
«Santa madre di Dio!»
Infilai in borsa stampate e fotocopie e schizzai fuori.
13
Fuori, la neve imbiancava le scale e le ringhiere, e si posava sui cumuli che già ingombravano le strade e i marciapiedi. Non mi importava. Appena uscita dall'edificio, chiamai Claudel.
L'operatore della CUM mi disse che Claudel era fuori ufficio. Chiesi di parlare con Charbonneau. Non c'era nemmeno lui.
«Sono la dottoressa Brennan, dell'Istituto di medicina legale. Mi può dire quando rientreranno?»
«No.» Distratto. «Ha provato sul cercapersone?»
«Mi può dare i loro numeri?»
L'operatore eseguì e io chiamai subito entrambi i detective. Anche se non avevo grandi speranze di essere richiamata in tempi brevi. Soprattutto Claudel non credo fosse molto dell'idea di abbandonare un'importante operazione di polizia per chiamarmi in merito a un caso verso cui non aveva pressoché alcun interesse.
Dopodiché chiamai la signora Gallant/Ballant/Talent.
Nessuna risposta.
Sforzandomi di ritrovare la calma, telefonai ad Anne. Stava comprando decorazioni natalizie in un negozietto del centro.
La mia amica propose di pranzare a Le Jardin Nelson e fece per darmi indicazioni su come raggiungerlo.
«So dov'è» la interruppi.
Un lungo silenzio, poi: «Allora, come sono andate le nostre ricerche?».
«Credo di aver trovato qualcosa. Ci vediamo tra una decina di minuti.»
Con le spalle curve per ripararmi dalla neve, raggiunsi rapidamente Place Jacques Cartier, un'isola pedonale che da Rue Nôtre-Dame proseguiva in direzione del fiume fino a Rue de la Commune. Con il bel tempo, la piazza - su cui si affacciavano numerosi caffè, ristoranti e negozietti di souvenir - brulicava di vita, ma quel giorno vidi solo una manciata di turisti, un artista di strada e un terrier smunto e giallognolo che faceva pipì contro un lampione.
I fiocchi di neve avevano già nascosto l'acciottolato, i segnali stradali, la colonna in memoria dell'ammiraglio Nelson, il comandante inglese che sbaragliò la flotta francese di Napoleone nella battaglia di Trafalgar. Mai amato dai separatisti. Oltre la piazza, si intravedeva la sagoma argentea della cupola del Marché de Bonsecours, sede del municipio di Montréal prima di essere soppiantata dal palazzo mansardato alle mie spalle.
Québec. Le Solitudini Gemelle. Una cattolica e francese, l'altra inglese e calvinista. Qui le due culture e le due lingue si scontravano fin da quando gli inglesi presero la città, nel 1760. Place Jacques Cartier è un microcosmo in pietra del locale tribalismo linguistico.
Le Jardin Nelson era un ristorante situato al centro del lato occidentale della piazza dall'aspetto sobrio e compatto con le vetrine affacciate sulla piazza.
Quando entrai, Anne stava consultando il menù. Mi vide e alzò un braccio per farsi notare.
«Nevica tantissimo» dissi, togliendomi il giaccone.
«Pensi che attaccherà?»
«A Montréal la neve attacca sempre.»
«Ottimo.»
«Mah...» Posai il cellulare sul tavolo.
Una ragazza si avvicinò e ci riempì i bicchieri di acqua. Anne ordinò crêpes forestiers e un calice di chardonnay. Io scelsi crêpes argenteuil e una Diet Coke.
«Allora, hai trovato qualche tesoro?» domandai quando la cameriera si allontanò.
Anche in preda all'apatia, Anne è un kamikaze dello shopping. Mi mostrò i suoi acquisti.
Maglione color mandarino. Tazze provenzali dipinte a mano. Sei rane di peltro avvolte in raso rosso.
«Strano acquisto, per una che sta per iniziare una vita senza vincoli né costrizioni» commentai, indicando gli oggetti.
«Posso sempre regalarli a qualcuno» rispose Anne, riponendo i suoi acquisti.
La cameriera ci portò da bere. Io bevvi un sorso di Diet Coke e aprii il tovagliolo. Quindi, sistemai le posate. Spostai la forchetta. Allineai cucchiaio e coltello. Rispostai la forchetta. Controllai il cellulare per accertarmi che fosse acceso.
Altro sorso di Coca.
Passai a spianare i bordi della mia tovaglietta con i palmi della mano. A ordinare le frange. Presi il telefono. Lo posai.
Anne sollevò il sopracciglio.
«Per caso aspetti una telefonata?»
«Ho lasciato un messaggio a Claudel e al suo compagno.»
«Pensi di volermi dire che cosa hai scoperto?»
Presi le fotocopie e le stampate dalla borsa e le posai accanto alla mia tovaglietta.
«Non voglio tirarla troppo in lungo. Comunque, l'edificio è stato costruito nel 1901 e apparteneva a un uomo chiamato Yves Sauriol. All'epoca era interamente destinato a uso residenziale. Il figlio di Sauriol, Jacques, lo eredita nel '28, e il figlio di Jacques, Yves, lo eredita a sua volta nel '39.
«Nel 1947 Yves Sauriol junior, il nipote, vende la proprietà a un certo Éric-Emmanuel Gratton. A questo punto il pian terreno viene destinato a uso commerciale e viene occupato da una piccola tipografia fino al 1970.
«Éric-Emmanuel Gratton muore nel 1958 e la moglie, Marie, eredita l'edificio. Marie passa a miglior vita nel '63 e il palazzo passa al figlio Gille Gratton, il quale vende tutto nel 1970.»
«È ancora molto lunga?»
«Gille Gratton vende a un certo Nicolò Cataneo.»
Anne accolse quel nome con aria indifferente.
«Cioè a dire: Nick "Knife" Cataneo.»
Gli occhi verdi della mia amica si spalancarono. «Mafia?»
Annuii.
«"Knife" hai detto? Knife come coltello?»
Annuii ancora.
«Questo spiegherebbe la folle intrusione nel tuo appartamento.»
«Non so granché della malavita, ma Nicolò Cataneo è un nome che ho sentito molte volte nel corso degli anni.»
«Ma questa è una zona di mafia?»
«Sin dall'inizio del secolo.»
«Credevo che qui aveste solo i biker.»
«Infatti li abbiamo. E al momento sono i numeri uno. Ma i biker sono solo uno degli elementi che compongono il magico mondo del crimine organizzato di Montréal. La mafia, la West End gang e gli Hells Angels formano un'organizzazione nota con il nome di "Consorzio".»
«Un po' come la "Commissione" di New York?»
«Esattamente.»
«E i ragazzi di qui vanno d'accordo con i ragazzi oltre il confine? O si considerano degli isolani?»
«Come la Sicilia rispetto all'Italia? Non sono molto informata sui rapporti geografici e non tra le varie famiglie. So solo che c'è stato un periodo, nel passato, in cui Montréal era letteralmente una filiale del crimine organizzato di New York.»
«Parli della famiglia dei Bonanno? Ho letto un libro in proposito.»
Annuii. «L'organizzazione di Montréal era guidata da un certo Vic "Egg" Cotroni. Credo che questo Cotroni sia morto verso la metà degli anni Ottanta.»
Controllai il cellulare. Ancora nessun messaggio.
«Cosa mi dici di questa West End gang?» domandò Anne.
«È una banda formata soprattutto da irlandesi.»
«I tuoi compaesani.»
«Noi irlandesi siamo solo soldati di fanteria nell'esercito del Signore.»
«Più che altro poeti e ubriaconi, in ordine inverso quanto a eccellenza.»
«Attenta.»
«Di che si occupa, questo Consorzio?»
«Prostituzione. Gioco d'azzardo. Sostanze illegali di vario genere. Il Consorzio decide il prezzo della droga, le quantità da importare, chi sono i fortunati compratori. Pare che negli anni la rete di Cotroni abbia immesso sul mercato americano stupefacenti per un valore pari a milioni e milioni di dollari. E poi i profitti di queste attività vengono riciclati attraverso attività perfettamente legali.»
«Uno schema collaudato, da quel che leggo.»
«Lo stesso adottato dalle gang di biker. Potrebbero insegnarlo ai master di amministrazione aziendale.»
In quel momento la cameriera arrivò con le nostre ordinazioni. Controllai ancora una volta il cellulare. Niente messaggi.
«Tornando al nostro edificio» dissi, dopo qualche boccone di crêpe, «Nick Knife lo comprò nel 1970, e ne rimase in possesso per dieci anni.»
«E questo che cosa c'entra con i tuoi scheletri?»
«Sto parlando di delinquenti, Anne. Non di chierichetti. In quello scantinato potrebbero averci sepolto chiunque.»
«Non stiamo un po' drammatizzando, Tempe?»
«A quei tempi la gente spariva con grande facilità.»
«Anche le ragazzine?»
«Mai sentito parlare di prostituzione? Di strip-club? La vita non ha molto valore per questa gente.»
Soprattutto la vita delle donne, pensai, e rividi un'immagine della prostituta con il coltello nella pancia che adesso era all'ospedale Nôtre-Dame.
Anne si concentrò sulla sua crêpe finché non l'ebbe terminata. Poi: «Che cosa facevano al pian terreno, quando l'edificio apparteneva a questo Nick the Knife?».
«Queste informazioni non erano disponibili.»
«Chi comprò la proprietà in seguito?»
Controllai la mia stampata.
«Nei 1980 l'edificio viene venduto a un certo Richard Cyr. Stando ai documenti, Cyr è l'attuale proprietario.»
«Adesso che cosa c'è nello spazio al pian terreno?»
«Ci sono quattro diverse attività commerciali.»
«Compresa la pizzeria.»
«Sì.»
«Dove vive monsieur Cyr?»
Tornai alla stampata.
«Nôtre-Dame-de-Grâce.»
«È lontano da Montréal?»
«È un quartiere a ovest di Centre-Ville.»
Anne rimase con il calice di vino bianco sospeso a mezz'aria. Poi: «Ci siamo».
La guardai con aria confusa.
«Ma sì... il nostro prossimo passo. Facciamo una telefonata a questo Cyr. No, meglio. Se è così vicino come hai detto, che ne dici di una visita a sorpresa? Io non ho fatto ancora niente finora. Forza, Tempe. Cagney e Lacey vanno a risolvere questo caso.»
Spostai lo sguardo sul telefono accanto al mio piatto. Il piccolo display non offriva altro che l'ora e il mio nome.
Era evidente che né Claudel né Charbonneau avevano intenzione di rispondere al mio messaggio.
Alzai la mia Diet Coke. Anne alzò il suo calice di vino.
«Alle ricerche archeologiche» dissi, incrociando i nostri bicchieri.
«Alle ricerche archeologiche.» Anne finì d'un fiato il suo chardonnay.
Nôtre-Dame-de-Grâce, o anche NGD, è un tranquillo quartiere residenziale non lontano da Centre-Ville. Non come il Westmount degli inglesi facoltosi, né l'Outremont della loro controparte francese, ma ugualmente gradevole. Ceto medio. Un bel posto dove crescere i bambini e portare a spasso i collie.
Richard Cyr viveva in una villetta bifamiliare sulla Coronation, vicinissimo al campus Loyola della Concordia University. Ci vollero una ventina di minuti per arrivare, altri cinque per trovare il posto.
Due francobolli di giardino davanti e dietro, un vialetto che non portava da nessuna parte, piccola veranda protetta da una sottile tettoia di metallo. Ford Falcon azzurra.
«Monsieur Cyr non sembra interessato a rispondere al richiamo della pala» osservò Anne.
In inverno, i proprietari di case di Montréal spalano sempre la neve dal loro segmento di marciapiede, oppure affidano l'incombenza a un'impresa specializzata, o anche ai figli dei vicini. Cyr non aveva fatto niente di tutto questo e la nevicata del pomeriggio stava imbiancando un marciapiede già coperto da uno strato compatto di neve e ghiaccio.
Anne e io camminammo con grande cautela fino alla veranda della villetta. Quando suonai alla porta, un elaborato campanello suonò all'interno della casa.
Dopo un buon minuto, nessuno aveva ancora risposto.
Suonai ancora.
Niente.
«Cyr dev'essere fisicamente impedito nonché il più grande taccagno dell'universo» osservò Anne.
«Forse spende i suoi soldi in altre cose.»
«Che bel pensiero. Questo testa-vuota che se la spassa alle Barbados sul suo yacht mentre noi dobbiamo fare attenzione a non ucciderci mentre saliamo i gradini di casa sua.»
«La macchina è qui.»
Anne si voltò per guardare. «Direi che le auto nuove fiammanti non sono la sua passione.»
Stavo per suonare una terza volta, quando udii cigolare la porta interna. Un uomo guardò fuori attraverso il portoncino esterno in vetro e alluminio.
Non aveva un'aria felice, ma non fu la sua espressione a preoccuparci.
Anne e io d'istinto indietreggiammo.
14
L'uomo di fronte a noi era basso e tarchiato, con capelli bianchi ingialliti ed elaborati baffi brizzolati. Portava un paio di occhiali dalle lenti sporche di unto e una serie di catene d'oro al collo.
Nient'altro. Solo gli occhiali e le catene.
L'espressione dell'uomo cambiò in una smorfia di soddisfazione, non appena vide me e Anne indietreggiare con passi incerti sulla sua veranda. Poi l'espressione del suo viso si fece di nuovo violenta.
«Je suis catholique!»
I miei stivali scivolarono sulla superficie insidiosa della veranda.
Cyr si afferrò il pene e lo agitò davanti a noi.
Accanto a me, Anne afferrò il mancorrente e fece dietrofront scendendo i gradini.
«Catholique!» ripeté l'uomo urlando.
Cattolico?
Mi fermai. Avevo visto Harry ricorrere allo stesso espediente. Vestita.
«Non siamo missionarie, monsieur Cyr.»
L'espressione ostile dell'uomo si ammorbidì, poi tornò uguale a prima.
«E non sono Pee Wee Herman.» Quel nome suonò strano pronunciato con l'accento francese locale.
Cercai nella borsetta.
Cyr si avvicinò alla porta. «Andatevene!»
Presi un biglietto da visita.
«E non lasciatemi nessuno dei vostri maledetti opuscoli, tabernouche!»
«Non apparteniamo a nessuna congregazione.»
Quando capì che cosa stava succedendo, Anne si voltò di nuovo verso la casa, senza lasciare il mancorrente.
Cyr ripropose la sua virilissima minaccia, questa volta in direzione di Anne.
«Orrore!» disse Anne sottovoce. «Aggressione con arma mortale.»
Le lenti unticce si fissarono sulla mia amica. Un sorriso affiorò lentamente sulle labbra raggrinzite dell'uomo.
Cyr agitò di nuovo la sua arma impropria.
Anne replicò con la solita frase. «Che ne dici, Tempe? Sembrerebbe un pene, solo un po' più piccolo.»
Cyr agitò.
Anne aprì la bocca per replicare.
Decisi di intervenire per interrompere lo scambio. «Monsieur Cyr, sto svolgendo delle indagini su una delle sue proprietà e dovrei rivolgerle alcune domande sull'edificio.»
Cyr si voltò verso di me, con le dita di una mano ancora strette sulla mercanzia.
«Quindi non siete qui per salvare la mia anima dannata?»
«Signore, siamo qui per parlare dell'edificio in suo possesso.»
«Siete del Comune?»
Esitai. «Sì.» In fondo, lavoravo per lo Stato, e Cyr non mi aveva chiesto di mostrargli nessun tesserino.
«Un inquilino rompiballe ha protestato per qualcosa?»
«Non che io sappia.»
«E lei? Anche lei è del Comune?» chiese Cyr indicando Anne con la testa.
«Lei lavora con me.»
«Bel pezzo di figliola.»
«Sì. Senta, monsieur Cyr, dovremmo rivolgerle alcune domande molto importanti.»
Cyr aprì il portoncino. Anne e io entrammo. Quando Cyr chiuse la porta, il piccolo ingresso tornò in penombra. Sembrava aver dimenticato di essere completamente nudo.
«Non vuole mettersi addosso una coperta?» suggerì Anne.
«Pensavo che eravate quelli della Torre di Guardia» disse Cyr. «Quella gente ha meno buon senso di una rapa. Ma se ti trovano nudo, ti lasciano in pace. Oppure, gli devi dire che sei cattolico.»
Anne indicò i genitali di Cyr.
L'uomo ci indicò il soggiorno, sulla destra.
«Torno tra un minuto.»
Cyr iniziò a salire la scala al centro della villetta, mettendo prima un piede poi l'altro sullo stesso gradino. Il suo corpo nudo spiccava bianco come la pancia di una rana contro il legno scuro della scala, mentre il suo fondoschiena appariva scuro e peloso.
Anne e io ci sedemmo alle estremità opposte di un divano foderato in broccato rosa coperto da un telo protettivo di plastica. Mi tolsi il giaccone. Anne rimase completamente vestita.
«Non ho visto una cosa del genere in Cagney e Lacey.»
Sorrisi, e iniziai a guardarmi intorno. Di fronte al divano, una poltrona, anche questa foderata con la plastica e una poltrona reclinabile. A destra, il caminetto, con i mattoni dipinti in marrone. A sinistra un piccolo organetto, un grande televisore con una poltrona lisa vicina allo schermo. Niente plastica.
Ovunque, silenzio ovattato.
Mi chiesi se fosse stato Cyr ad aggiungere la plastica, o se la protezione fosse in realtà parte dell'imballaggio con cui avevano consegnato i mobili.
Dubitai che esistesse una signora Cyr. Non c'era nessuna fotografia dei bei vecchi tempi, il posacenere era stracolmo. Pile di «Playboy» e di «National Geographic» ornavano le pareti.
Mi accorsi che anche Anne stava osservando il posto.
«Pensa, Anne, tutto questo potrebbe essere tuo» dissi a voce bassa. «Credo che Cyr si sia preso una cotta per te.»
«Io invece credo che il vecchio sia assolutamente innocuo» replicò Anne, sussurrando.
«Tu hai detto che avevi fame di vita nella corsia di sorpasso.»
Dopo qualche minuto udimmo un rumore di passi.
Cyr ricomparve in scarpe da tennis, camicia verde a scacchi e calzoni grigi di lana tirati su all'altezza delle ascelle.
«Volete qualcosa da bere?»
Rifiutammo entrambe.
«Non vi va un bel goccetto in una giornata di neve?»
«No, grazie.»
«Se cambiate idea, non avete che da dirlo.»
Cyr andò a sedersi sulla poltrona reclinabile, lasciandosi dietro una scia di tabacco d'Arar.
«Figliola, lei ha una cascata di capelli davvero straordinaria» disse Cyr ad Anne.
«Grazie.»
Era vero. Per una strana combinazione genetica, Anne aveva capelli biondi e folti e capaci di crescere all'infinito. Al momento non li aveva molto lunghi, ma se avesse voluto farli crescere, non avrebbe avuto alcun problema. Io avevo sempre cercato di non odiarla per tanta perfezione, ma in passato a volte era stato difficile.
«Ed è anche molto alta.» Cyr respirò con il naso, pronunciando le parole tra un respiro e l'altro. «È sposata?»
«Sì.»
«Be', se per caso cambia idea, me lo faccia sapere.» Cyr si rivolse a me. «Le bionde mi fanno impazzire.»
Io cercai di portare le cose su un piano più ufficiale.
«Monsieur Cyr...»
«Come trova il mio inglese?»
«Perfetto.» E in effetti, a parte l'accento, era davvero molto buono.
Cyr indicò con il mento le riviste impilate lungo le pareti.
«Lo tengo vivo con la lettura.»
«Non le danno fastidio tutte quelle donne nude che interrompono gli articoli?» domandò Anne, vanificando tutti i miei sforzi di condurre una inchiesta ufficiale.
Cyr fece una specie di fischio che voleva essere una risata. «È proprio un bel tipetto, la sua collega, vero?»
«Sì, proprio un bel tipetto.» Quindi mi alzai e porsi a Cyr la mia stampata.
Dai registri risulta che questo edificio sia di sua proprietà.»
Cyr portò il foglio a pochi centimetri dalla faccia e lesse nella mente per quasi un minuto.
«Oui. È roba mia.»
«L'avete comprata nel 1980, giusto?»
«Una vera seccatura.» Cyr mi restituì il foglio.
Presi la stampata e tornai a sedere.
«Lei ha comprato la proprietà da Nicolò Cataneo?»
«Sì.»
«Per caso lei sa perché il signor Cataneo la vendette?»
«Non ho chiesto. Per me era semplicemente una proprietà in vendita.»
«Ma non è una domanda normale, quando si procede a un investimento così importante?»
«Da fare a Nicolò Cataneo?»
Non aveva tutti i torti.
«Posso chiederle quale attività commerciale veniva esercitata al pian terreno, all'epoca del suo acquisto?»
Cyr rispose senza esitazioni.
«Un forno. "La boulangerie Lugano". Ma se ne sono andati prima che arrivassi io.»
«E questo forno da che cosa è stato sostituito?»
«Ho suddiviso lo spazio. Ci ho messo quattro negozi diversi. Era più redditizio.»
«Uno di questi negozi è la pizzeria?»
«Sì. "Le Pizza Paradis Express".»
«Da quanto tempo è in attività?»
«Dal 2001.» Cyr fece una smorfia e aggiunse: «Ma sarebbe meglio chiamarlo "Peli di topo e scarafaggi al taglio". Questi accidenti di emigranti non saprebbero riconoscere l'igiene nemmeno se gli saltasse addosso». Cyr usò la parola «emigranti» come un politico d'altri tempi. «Ma non ho niente da dire su Matoub. Mi paga l'affitto e non è mai in ritardo.»
«L'ultimo affittuario è questo Matoub?» Lo aveva già saputo da Claudel, il giorno del recupero.
Cyr si infilò un dito nell'orecchio e poi distrattamente lo ispezionò.
«Si ricorda per caso qualche inquilino precedente al signor Matoub?» proseguii.
«Ma certo che me li ricordo, che domande. Li ricordo tutti. Ho l'aria di uno in lista d'attesa per l'ospizio?»
Gli stereotipi sono spesso all'origine di supposizioni errate. E, anche se odiavo ammetterlo, anch'io a volte ne ero vittima. Poiché Cyr era anziano, avevo dato per scontato che la sua memoria non fosse buona. Ma dovetti subito ricredermi. Quell'uomo era tutt'altro che stupido.
«No, ecco...»
«Ho avuto più inquilini io di quanti capelli ha in testa la sua amica.»
Cyr lanciò ad Anne un'occhiata ammiccante.
Anne rispose con un cenno della sua testolina.
«Prima della pizzeria, c'era un salone di bellezza specializzato nella cura delle unghie» mi disse Cyr. «C'era una vietnamita di nome Truong con una decina di lavoranti. Ma non deve aver avuto molta fortuna perché dopo un paio d'anni se ne sono andati.»
«E prima?»
«Mi piacevano, le signorine delle unghie. Sembravano tante bamboline cinesi. Quando ridevano, si coprivano i denti.»
«E prima del salone di bellezza?»
«Prima, c'era un banco dei pegni. Un tizio che si chiamava Ménard.» Cyr puntò un dito davanti a sé. «Stéphane. Sébastien. Sylvain. Un nome così. Vendeva e comprava roba. E doveva anche essere bravo, perché è durato nove anni. Dall'89 al '98.»
Feci un rapido calcolo. «Quindi tra il salone di bellezza e l'agenzia di pegni, è rimasto vuoto per un anno?»
«Direi di sì.»
«E prima dell'agenzia di pegni, chi c'era?»
«Vediamo. Dal '76 all'89 c'erano un negozio di valigie, un macellaio e una specie di agenzia di viaggio. Per i nomi e le date dovrei guardare i miei documenti.»
«Potrebbe prenderli, per cortesia?»
Gli occhi di Cyr si socchiusero dietro le lenti. «Bella signora, adesso le dispiacerebbe dirmi perché mi sta facendo tutte queste domande?»
Mi aspettavo la domanda, anzi, ero sorpresa che non fosse arrivata prima. Che cosa dovevo dirgli? Che cosa dovevo tacergli?
«Nello scantinato del suo edificio è stato trovato qualcosa, e adesso si stanno conducendo delle indagini in merito.»
Se per caso avessi sperato in una reazione, non l'avrei avuta. Cyr non mi chiese neppure chi stava investigando.
«Potrei sapere come si accede allo scantinato della pizzeria?» proseguii.
«Una volta si scendeva da una scala sistemata davanti a una porta a livello strada. Ma poi è stata eliminata con la ristrutturazione.»
«È possibile accedere allo scantinato da qualche altra parte dell'edificio?»
Cyr scosse la testa. «Quello scantinato non viene usato da anni. L'unico modo di scendere è attraverso una botola nel cacatoio.»
Cyr si voltò verso Anne. «Mi perdoni l'espressione, madame.»
«Ma si immagini. Una vera licenza poetica.»
«Sacrifice! Ma sa che è proprio simpatica, bella figliola? Quando il contratto con suo marito scade, si ricordi di fare un colpo di telefono al vecchio Richard Cyr.»
«Tranquillo. Il suo numero è già in cima alla mia lista d'attesa.»
Cyr si alzò aiutandosi con entrambe le mani.»
«Ci vorrà un po' prima che trovi quei documenti. Sicure che non volete un po' di scotch per scaldarvi le budella?»
Di nuovo, Anne e io rifiutammo.
Dopo una mezz'oretta, Cyr tornò ciabattando in soggiorno, con un foglio in mano.
Anne e io ci alzammo.
«Perché non vi fermate per cena, belle signore? Potremmo ordinare qualcosa al messicano, e farci fuori anche qualche margarita. Che ne dite?»
«Ci piacerebbe molto, monsieur Cyr» dissi io. «Ma in questo momento stiamo lavorando, e non abbiamo molto tempo per la vita sociale.»
«Pazienza. Comunque sapete dove trovarmi.»
Mi chiusi la cerniera del giaccone e Cyr ci accompagnò all'ingresso.
Prima di uscire, gli allungai un biglietto da visita.
«Se dovesse venirle in mente qualcosa, la prego di telefonarmi.»
Cyr mi porse il documento. «Se ben ricordo, questa gente era losca come una minestra di funghi.»
«Merci, monsieur Cyr.»
«Se hanno ucciso qualcuno, io non c'entro niente.» A voce bassa e senza nessuna traccia di umorismo.
«Che cosa le fa credere che abbiano ucciso qualcuno?» Dato che Cyr non aveva fatto cenno a «Le Journal», avevo dato per scontato che non avesse letto l'articolo.
«Quel detective mi ha raccontato che cosa hanno trovato nello scantinato.»
Sicché Claudel aveva già interrogato Cyr. Accidenti a lui. Ancora una volta non mi aveva tenuto informata.
«Già. È un fatto.»
«Un vero stronzetto arrogante e pieno di boria.»
«Chi? Il detective Claudel?»
«Lo stronzo pensava che non ci fossi con la testa. E così non gli ho detto un bel niente.»
«Mi dica, monsieur Cyr, secondo lei com'è possibile che tre persone siano finite sepolte nel suo scantinato?»
«Se è successo qualcosa di brutto, sicuramente è successo prima che io diventassi il proprietario.»
«Come può esserne così sicuro?»
«Ha mai conosciuto Nicolò Cataneo?» La voce del vecchio avrebbe potuto affilare un rasoio.
Scossi la testa.
«Be', allora faccia molta attenzione.»
15
Le neve continuava a cedere incessante, e presto una spessa coltre bianca avrebbe ricoperto ogni elemento del paesaggio cittadino.
Anne non disse una parola durante il breve tragitto che ci riportò all'auto. E impassibile, mi osservò comporre il numero che mi collegava alla segreteria telefonica dell'ufficio.
Nessun messaggio.
Chiamai la signora Gallant/Ballant/Talent.
Nessuna riposta.
Telefonai al servizio informazioni utenti, per sapere se la sua chiamata in Istituto di mercoledì era già stata registrata, o se il numero che mi aveva lasciato giovedì corrispondesse a un nome o a un indirizzo.
Ci stavano ancora lavorando.
«Maledizione!» Perché non mi avevano almeno dato il nome in elenco per il numero che avevo già fornito loro? Avrebbero potuto confrontare la chiamata del mercoledì precedente con quel numero, non appena questa fosse stata registrata. O forse la mia richiesta era stata messa in coda, per dare la precedenza alle richieste della polizia?
Gettai il cellulare in borsa, recuperai un raschietto dal sedile posteriore e uscii a pulire parabrezza e finestrini. Poi tornai al volante e chiusi con forza la portiera.
Dopo aver avviato il motore, uscii dal parcheggio con qualche cauta manovra e al primo segno di attrito delle ruote, accelerai per immettermi nel flusso del traffico slittando leggermente con le ruote posteriori. Con le mani strette sul volante, mi sporsi in avanti cercando di distinguere la strada come meglio potevo oltre la cortina di fiocchi bianchi che cadevano davanti sul parabrezza.
Dopo due isolati, Anne ruppe il silenzio.
«Potremmo cercare sui vecchi quotidiani gli articoli sulle ragazze scomparse.»
«Inglesi o francesi?»
«Gli scomparsi non dovrebbero risultare su entrambi?»
«Non necessariamente.» Ero completamente concentrata nel seguire le tracce lasciate dalle auto che mi precedevano. «E a Montréal nel corso degli anni si sono pubblicati tantissimi quotidiani in lingua francese.»
La parte posteriore della Mazda sbandò leggermente verso sinistra. Sterzai e raddrizzai l'auto.
«Allora potremmo iniziare con la stampa di lingua inglese.»
«Quali annate? Quell'edificio è stato costruito all'inizio del secolo.»
La neve continuava ad accumularsi sul parabrezza. Attivai lo sbrinatore.
«Il test della fluorescenza a raggi ultravioletti mi dice che quelle ossa probabilmente non sono più antiche dell'edificio. Ma più di questo, non posso sapere.»
«Okay. Non faremo ricerche negli archivi dei giornali.»
«Senza sapere il periodo esatto e la lingua da ricercare, rischieremmo di impiegarci tutto l'inverno. Inoltre, le ragazze sono state ritrovate qui, ma potrebbero essere scomparse anche altrove.»
Lentamente, avanzammo di un altro isolato.
«E che mi dici dei bottoni?»
«Quali bottoni?» scattai, innervosita dall'eccessiva attenzione che mi richiedeva la guida.
Anne si allentò la sciarpa, e si abbandonò sul sedile, assumendo un atteggiamento che significava che meritavo solo di essere ignorata.
«Scusami.» Mi stavo comportando come Claudel.
Il silenzio perdurò. Era evidente che toccava a me rimediare.
«Ti chiedo scusa, Anne. Guidare con la neve mi mette molto in tensione. Che cosa volevi dirmi sui bottoni?»
Dopo qualche altro istante di silenzio che stava a significare «sei proprio una stronza», Anne mi mise a parte dei suoi pensieri.
«Forse potresti portare quei bottoni da un altro esperto. Per tentare di ottenere altre informazioni.»
Toccai delicatamente il freno e fermai l'auto. Sulla Sherbrooke, una donna anziana portava a passeggio un vecchio cane. Tutti e due indossavano degli stivali. Tutti e due avevano gli occhi socchiusi contro la neve.
Guardai Anne.
In effetti, perché no?
Rilasciai il pedale dell'acceleratore molto lentamente, occupai l'incrocio e svoltai a sinistra.
Gesù. Ma certo che potevo fare così. Non avevo più pensato a quei bottoni, accettando il parere di Claudel. In fondo la sua esperta del McCord poteva anche sbagliarsi.
D'un tratto, ebbi una terribile fretta di avere un'altra opinione in merito.
«Annie, sei davvero un genio.»
«Mi impegno molto.»
«Sei pronta a sbrigare un paio di cosette, prima di andare a cena?»
«Vai.»
Arrivate in Istituto, Anne attese in macchina mentre io salivo velocemente nel mio ufficio per fare una rapida telefonata e prendere i bottoni. Quando tornai giù, Anne stava ascoltando un motivo di Zachary Richard su una stazione in lingua francese.
«Che cosa dicono le parole?»
«Parlano di qualcuno che si chiama Marjolaine.»
«Si direbbe che lui senta la mancanza di lei.»
«Così dice.»
«Un talento locale?»
«No, della Louisiana. Dalle tue parti.»
Anne si appoggiò al sedile e socchiuse gli occhi.
Tornare nel centro storico richiese il doppio del tempo normale e anche se erano appena passate le cinque, ormai era già buio. I lampioni erano accesi, i negozi stavano chiudendo, i pedoni camminavano veloci, spalle curve e borse strette contro il petto.
Lasciato Boulevard René-Lévesque, imboccai Rue Berri fino in fondo, quindi svoltai a destra e percorsi tutta Rue de la Commune. Alla nostra destra, i vicoli stretti del quartiere Vieux Montréal si intrecciavano sulle pendici della collina, mentre a sinistra incontrammo uno dopo l'altro il Marche Bonsecours, il Pavillon Jacques Cartier, il Centre des Sciences de Montréal. Alle loro spalle, il San Lorenzo era una lucente lastra di ghiaccio color ebano.
«È bellissimo» disse Anne. «Come una specie di tundra artica.»
«Occhio al caribù.»
Nei mesi più caldi, i pontili che sporgono sulle rive del fiume sono orlati da imbarcazioni di tutte le stazze, mentre i parchi e i giardini adiacenti sono affollati da una variegata confusione di turisti, cicloamatori, ragazzi con lo skate-board e famiglie con il cesto da picnic. Quella sera, il lungofiume era deserto e buio.
In fondo a Place d'Yuoville, svoltai in una stradina secondaria, e parcheggiai di fronte al vecchio palazzo della dogana. Anne mi seguì lungo un marciapiede in discesa, cercando di camminare dietro la mia scia.
Guardando verso il fiume, l'occhio mi cadde sul profilo incerto di Habitat '67. Costruito quell'anno in occasione del World Expo, il complesso era un geometrico insieme di cubi che sfidava la sottile arte dell'equilibrio. Frutto più dell'immaginazione che del pragmatismo architettonico, i suoi portici e i suoi vialetti erano una delizia d'estate e una condanna alla morte per assideramento d'inverno.
Andrew Ryan viveva a Habitat '67.
Una girandola di domande mise a dura prova la mia concentrazione.
Dov'era Ryan? Che cosa provava nei miei confronti? Che cosa provavo io nei suoi confronti? Perché voleva parlarmi? E di che cosa? Impegno? Scelta? Rottura?
Cercai di mettere da parte le domande. Ryan era impegnato in un'importante operazione di polizia e di certo non stava pensando a quello che provava per me.
In Rue de la Commune, entrammo in un futuristico edificio in pietra grigia, tutto angoli e spigoli. In alto, uno striscione spiccava in cima a una torre. «Ici naquit Montréal» Qui nacque Montréal.
«Che cos'è questo posto?» Anne si scrollò la neve dagli stivali sbattendo i piedi sul pavimento di mattonelle verdi.
«Pointe-a-Callière, il museo di Montréal di storia e archeologia.»
Il viso di un uomo spuntò da dietro un bancone circolare sul fondo dell'atrio. L'uomo era smunto e pallido, e aveva la barba lunga.
«Scusate, signore.» Si alzò e indicò un cartello. Indossava un cappottone militare, e aveva uno scarpone in mano. «Il museo è chiuso.»
«Ho un appuntamento con la dottoressa Mousseau.»
Sorpresa. «Mi può dire il suo nome, per favore?»
«Tempe Brennan.»
L'uomo digitò un numero, parlò per qualche secondo, poi abbassò la cornetta.
«La dottoressa Mousseau è nel sotterraneo. Conosce già la strada?»
«Sì, grazie.»
Attraversammo l'atrio e superammo un piccolo anfiteatro, poi scendemmo una scala di metallo ed entrammo in un ingresso lungo e stretto, dalla luce soffusa e con pareti e pavimento interamente di pietra.
«Mi sento come Alice che insegue il cappellaio matto nella galleria» disse Anne.
«Questo punto è il luogo in cui sorse l'insediamento che diede origine alla città di Montréal. Quel muro mostra come la città sia cresciuta e sia cambiata nel corso degli ultimi tre secoli.»
Anne indicò la porzione di muro che spuntava dal pavimento. «Vuoi dire che queste sono le fondamenta originarie?»
«No, ma quasi. È un muro molto antico.» Indicai un punto in fondo all'ingresso. «Quel camminamento si trova esattamente sotto Place d'Youville, vicino al punto in cui abbiamo parcheggiato. Quella che adesso è una strada, un tempo era una fognatura, e prima ancora, un fiume.»
«Tempe?» La voce risuonò tra i muri di pietra. «Est-ce toi, Tempe?»
«Oui, c'est moi.»
«Par ici.» Da questa parte.
«Chi è questa dottoressa?» sussurrò Anne.
«L'archeologa del museo.»
«Scommetto che quella donna ha un sacco di bottoni.»
«Già. Ha più bottoni lei dell'ascensore di un grattacielo.»
Monique Mousseau stava lavorando a una delle diverse decine di teche di vetro allineate lungo i corridoi che si irradiavano dalla stanza principale. Accanto, su un carrellino di metallo, erano appoggiati un computer portatile, un raccoglitore, alcuni libri, una macchina fotografica, una lente d'ingrandimento.
Quando ci vide, la dottoressa Mousseau ripose un oggetto, chiuse a chiave un armadietto e lasciando cadere gli occhialini alla Harry Potter sul petto, ci venne subito incontro.
«Bonjour, Tempe. Comment ça va?»
L'archeologa mi baciò sulle guance e mi abbracciò con trasporto, poi scostò il busto all'indietro e mi guardò con aria interrogativa, senza allentare la presa sulle mie braccia.
«Stai bene, Tempe?»
«Sto bene, Monique» risposi in inglese, poi le presentai Anne.
«Sono davvero molto lieta di conoscerti» disse la dottoressa Mousseau, abbracciando calorosamente anche lei.
«Anch'io» replicò Anne, disorientata dal turbine di energia con cui l'archeologa ci aveva travolto.
Le due donne sembravano appartenere a due specie diverse. Anne era alta e bionda; la scienziata non arrivava al metro e cinquanta e aveva capelli neri e ricci. Anne era avvolta nel suo sciarpone d'angora rosa, l'altra indossava una camicia da uomo, jeans neri, pedule con la suola a carrarmato. Inoltre, da un passante dei calzoni, le pendeva un enorme mazzo di chiavi.
«Innanzitutto lascia che ti ringrazi per aver accettato di vederci a quest'ora di un venerdì di neve.»
«Sta nevicando?» mi chiese l'archeologa interdetta.
Avevo conosciuto Monique Mousseau una decina d'anni addietro, ai tempi del mio incarico a Montréal. Nel corso degli anni mi era capitato spesso di lavorare con lei, e avevo avuto modo di capire che la sua energia non era il frutto di uno stimolante chimico ma del suo amore per la vita e per il suo lavoro. Datele una paletta e scaverà tutto il New England, si sarebbe potuto dire di lei.
«Fortissimo.»
«Che meraviglia. Oggi sono stata tutto il giorno sottoterra, e ho perso ogni contatto con il mondo esterno. Il panorama com'è?»
«Molto bianco.»
La sonora risata dell'archeologa risuonò molto più potente di quanto la taglia della donna avrebbe lasciato immaginare. «Coraggio, Tempe. Parlami di questi bottoni.»
Le descrissi i bottoni trovati nello scantinato.
«Affascinante» disse, sinceramente colpita. «Fammi dare un'occhiata.»
Cercai nella borsetta e le porsi una bustina trasparente.
Monique Mousseau si posò gli occhialini alla Harry Potter sul naso ed esaminò con attenzione i bottoni, rigirandosi la bustina tra le mani. Passò un intero minuto. Poi un altro.
Sul viso della studiosa si formò un'espressione perplessa.
Anne e io ci guardammo.
L'archeologa puntò le lenti verso di me.
«Posso toglierli dalla bustina?»
«Certamente.»
Mousseau fece scorrere la zip di plastica, lasciò cadere i bottoni e si avvicinò al carrellino per prendere la lente di ingrandimento con cui studiarli. Con la punta delle dita capovolse i bottoni, li osservò in ogni loro parte, li rivoltò ancora una volta. A ogni movimento, la sua espressione si faceva sempre più perplessa.
Anne e io ci scambiammo un altro sguardo.
L'esame dell'archeologa sembrò durare all'infinito. Poi: «Potete scusarmi un momento?».
Annuii.
La studiosa si allontanò lasciando due dei tre bottoni sul carrello.
Intorno a noi scese un inquietante silenzio. Da fuori, arrivava soltanto il rumore di qualche clacson.
L'attesa mi innervosì. Perché quell'aria perplessa? Che cosa aveva visto di strano la dottoressa?
Una vita dopo, Monique Mousseau tornò, riprese in mano gli altri due bottoni e continuò il suo esame. Infine, alzò lo sguardo su di noi.
«Questi bottoni sono già stati esaminati da Antoinette Legault avete detto?»
«Un detective li ha portati da lei al museo McCord.»
«E lei ha detto che a suo parere risalgono al tardo Ottocento, giusto?»
«Giusto.»
«Ha ragione.»
Mi sentii invadere dalla delusione.
L'archeologa si avvicinò a me, sollevò il palmo e mosse i due bottoni con la punta di una penna.
«Questi due sono in argento 925, realizzati da un gioielliere e orologiaio di nome Christie.»
«Dove?»
«A Edimburgo, in Scozia.»
«Quando?»
«Diciamo tra il 1890 e il 1900.»
«Sei sicura?»
«Ero piuttosto sicura di aver riconosciuto la mano di Christie ma ho controllato meglio, giusto per averne la certezza.»
Annuii, troppo scoraggiata per pensare a qualcosa da dire.
«Ma questo» proseguì l'archeologa, toccando il terzo bottone con la punta della penna, «questo è una copia, e nemmeno troppo ben fatta.»
La guardai con aria confusa.
Monique Mousseau mi passò la lente. «Confronta questo bottone» e mi indicò uno dei due oggetti di Christie «con questo.» La penna si spostò sulla copia.
Sotto la lente d'ingrandimento, i particolari della testa femminile incisa da Christie erano nitidi. Occhi. Naso. Riccioli. Al contrario, la sagoma impressa sul falso era un semplice ovale senza lineamenti.
Monique Mousseau girò i bottoni. «Osserva le iniziali incise all'interno dell'asola.»
Anche a un occhio inesperto, la differenza era evidente. Christie aveva inciso le due lettere con tratti tondeggianti e leggiadri. Sul falso, invece la S risultava semplicemente da una serie di tagli che si intersecavano.
Rimasi perplessa e in un certo senso sconcertata.
Ma quel mio stato d'animo non era niente in confronto a come mi sarei sentita il lunedì mattina.
16
Il mio appartamento si trova al pian terreno di un edificio a quattro piani, in un cortile interno di un quartiere centrale. Due stanze da letto. Due bagni. Soggiorno e sala da pranzo. Minuscola cucina. Ingresso.
Dal lungo corridoio che unisce l'entrata principale al soggiorno, proprio di fronte alla cucina, una grande vetrata si affaccia su un porticato che costeggia il cortile interno. Dal soggiorno, un'altra vetrata si apre su un fazzoletto di giardino.
In estate, pianto le piantine aromatiche lungo il margine del prato. D'inverno, osservo la neve accumularsi sullo steccato di legno, e sui rami del pino al centro della recinzione. Cinque metri quadrati. Un'estensione extraordinaire per un appartamento cittadino.
Quella sera, quel buio cortiletto mi faceva sentire scoperta e vulnerabile. Anche se la pattuglia che Ryan aveva richiesto per la mia protezione passava di frequente. In più, il suo rattoppo sulla vetrata non smetteva di ricordarmi il mio sgradito visitatore e il punto da cui aveva pensato di entrare in casa mia. Quali altre possibilità avrebbe potuto avere? Dovevo ammettere che avere Anne con me era un sollievo.
Dopo una rapida cena a base di cibo thailandese da asporto, Anne e io cercammo di rimettere in ordine la casa. Mentre spazzavo e passavo l'aspirapolvere, mi sentii assalire dalla rabbia.
Di nuovo, quando andai a letto, faticai ad addormentarmi per i tanti pensieri che mi affollavano la mente.
Il mio nido era stato violato da un tossico in cerca di merce da vendere? Sembrava la risposta più probabile. Qualcuno che aveva un bisogno disperato di contanti per un buco e che si è lasciato prendere dalla rabbia quando non ne ha trovato. Nessun ladro di appartamenti si sarebbe comportato così. E se invece la sua intenzione era quella di spaventarmi? E se invece qualche boss avesse ordinato a qualcuno di distogliermi da eventuali segreti della malavita a lungo nascosti, lanciandomi un messaggio del tipo «sappiamo dove abiti»? Oppure era uno psicopatico con uno specifico problema nei miei confronti?
Che cosa significavano quei tre bottoni?
Perché Claudel e Charbonneau non avevano risposto alle mie chiamate?
Dov'era Ryan? Perché non aveva telefonato?
Il sabato mattina Anne andò a fare un giro a Le Faubourg mentre io chiamavo un vetraio per far riparare la vetrata. A mezzogiorno il nuovo pannello di vetro era al suo posto, il frigorifero era stato rifornito e l'appartamento decentemente ripulito.
Per certe ragioni di cui il mio inconscio preferisce non mettermi a parte, ci sono alcuni articoli di cui io non riesco mai a liberarmi. Per esempio, le ricette mediche. O le copie del «National Geographic». Gli elenchi dell'American Academy of Forensic Sciences. Elenchi telefonici.
Be', non si può mai sapere.
Dopo aver mangiato qualche sandwich al formaggio, pomodoro e maionese con Anne, radunai tutti i manuali sulle ossa che avevo in casa e li posai accanto al computer. Quindi presi i fogli che mi aveva dato Cyr.
Da dove dovevo iniziare a cercare i vari inquilini? Dovevo procedere in avanti o a ritroso?
Iniziai dai primi.
Dal 1976 al 1982, lo spazio in cui attualmente c'era la pizzeria era stato occupato da una valigeria. Il titolare era una donna di nome Sylvie Vasco.
Composi il numero sull'elenco che mi aveva passato Cyr e mi rispose uno studente universitario che viveva all'interno della McGill. E che non aveva idea di ciò di cui stavo parlando.
Gli elenchi e il mio computer non mi fornirono nessun nominativo corrispondente a Sylvie Vasco, ma insieme riuscirono a darmi sette S. Vasco. Un numero risultava disattivato. Due suonarono a vuoto. Il quarto corrispondeva allo studio di un avvocato. Agli ultimi tre numeri risposero tre donne. Nessuna si chiamava Sylvie o conosceva una Vasco con questo nome o uno molto simile.
Cerchiai i due numeri senza risposta, e proseguii.
Dal 1982 al 1987 la pizzeria era stata occupata da una macelleria chiamata «Boucherie Lehaim». Cyr aveva scritto che il proprietario era un certo Abraham Cohen, e accanto c'era l'annotazione «sp?».
L'elenco telefonico dava migliaia di Cohen, dentro e fuori Montréal. Inoltre, c'erano le versioni alternative, come Coen, Coehn, Cohn, Kohen e Kohn.
Fantastico.
Le pagine gialle davano una «Boucherie Lehaim» a Hampstead.
Ma quando telefonai, nessuno mi rispose.
Tornai all'elenco di Cyr.
Patrick Ockleman e Ilya Fabian erano stati inquilini di Cyr dal 1897 al 1988. Cyr aveva scritto accanto ai loro nomi le parole «checca» e «viaggi».
Sotto il nome Ockleman non trovai niente in nessun elenco.
Ilya Fabian risultava residente ad Amherst, presso un indirizzo del Gay Village. Il telefono squillò solo una volta.
Quando mi risposero, chiesi se stavo parlando con Ilya Fabian.
Era lui.
Domandai se la persona al telefono era lo stesso Ilya Fabian che aveva gestito un'agenzia di viaggio in Rue Ste-Catherine alla fine degli anni Ottanta.
«Sì.» Circospetto.
Domandai se lui o il suo collega Ockleman avessero utilizzato o visitato lo scantinato durante la loro permanenza nell'edificio.
«Mi ha detto che lavora con il coroner?» Diffidenza mista a disgusto.
«Sì.»
«Oh, mio Dio. Non mi dica che là sotto c'era un morto? Avete trovato un cadavere in cantina?»
Cosa dovevo rispondere?
«Sto svolgendo delle indagini su certe ossa trovate sepolte sotto il pavimento.»
«Oh, mio Dio!»
«Probabilmente si tratta di materiale molto antico.»
«Oh, mio Dio! Come l'Esorcista. No, no. Qual era quel film con la ragazzina? Quello dove costruiscono la casa su un cimitero? Sì! Poltergeist.»
«Signor Fabian...»
«Non sono sorpreso di quello che mi dice. Patrick e io una volta avevamo dato un'occhiata a quella fogna lurida e puzzolente e non ci abbiamo più messo piede. Mi viene ancora la pelle d'oca quando penso a tutti quei topi e quegli scarafaggi.»
Fabian pronunciò topi e scarafaggi con almeno cinque «i» finali ciascuno. «Quello scantinato brulicava di insetti orribili.» anche in questo caso le «i» si moltiplicarono. «E adesso mi dice che là sotto c'erano anche dei cadaveri?»
«Avete mai usato la cantina per tenerci qualcosa?»
«Dio ce ne scampi.» Lo immaginai rabbrividire in modo teatrale.
Un po' schizzinoso, per essere uno abituato a viaggiare, pensai.
«Per caso la vostra agenzia era specializzata in una zona specifica, signor Fabian?
«Patrick e io organizzavamo pacchetti per luoghi sacri rivolti in particolare ai gay.» Sospiro. «Ma non era un momento favorevole ai viaggi spirituali. Abbiamo chiuso dopo un anno e mezzo.»
«Patrick Ockleman?»
«Sì.»
«Adesso dove si trova il signor Ockleman.»
«È morto.»
Attesi che Fabian aggiungesse qualche particolare. Ma lui non disse altro.
«Posso chiederle come e quando è morto il suo socio?»
«È stato investito da un pullman. Ironia della sorte, era un pullman di turisti.» Voce lacrimevole. «A Stowe, nel Vermont. Quattro anni fa. Le ruote gli hanno schiacciato la testa come una...»
«La ringrazio, signor Fabian. Se ci sarà bisogno di ulteriori chiarimenti, la richiameremo.»
Attaccai. Fabian e Ockleman sembravano due candidati piuttosto improbabili al ruolo di serial killer, ma sottolineai il numero di telefono e annotai qualche appunto.
Il nome successivo era S. Ménard; accanto, Cyr aveva segnato «agenzia pegni» e le date 1989 e 1998.
Sull'elenco telefonico di Montréal trovai quattro pagine di Ménard, e settantotto di questi nominativi avevano un nome che iniziava per S.
Dopo quarantadue chiamate decisi che Ménard era un lavoro da detective.
Il prossimo.
Il salone di bellezza di Phan Loc Truong aveva occupato i locali di Cyr dal 1998 al 1999.
Meno scoraggiante di Ménard, ma nelle sole pagine gialle i Truong erano duecentoventisette. Nessun Phan Loc. Due avevano il nome che iniziava con P.
Nessuna delle due P era un Phan Loc. Nessuno dei due conosceva un Phan Loc che aveva un salone di bellezza.
Iniziai a contattare il resto dei Truong. Molti parlavano a stento sia l'inglese che il francese e molti in qualche modo erano legati a un salone di bellezza. Nessuno invece conosceva il negozio situato nell'edificio di Richard Cyr.
Stavo chiamando il ventinovesimo Truong, quando una voce mi interruppe.
«Trovato niente?» mi domandò Anne entrando nella stanza ormai buia.
«Molte signore si farebbero volentieri fare le unghie da me.»
Scoraggiata, spensi il computer.
Dopodiché Anne e io andammo in cucina a preparare una cena a base di bistecche, patate e asparagi. A tavola, le raccontai del mio infruttuoso pomeriggio.
Dopo cena, guardammo due film dell'ispettore Clouseau con Birdie accanto a noi sul divano. I film non riuscirono a farci ridere molto e ci ritirammo a dormire piuttosto presto.
La domenica, verso mezzogiorno, riprovai a chiamare la «Boucherie Lehaim».
Niente.
Alle due finalmente qualcuno mi rispose.
«Shalom.» Voce che ricordava un oboe baritono.
Mi presentai.
L'uomo disse di chiamarsi Harry Cohen.
«Per caso la sua è la stessa "Boucherie Lehaim" che negli anni Ottanta si trovava in Rue Ste-Catherine.»
«Sì. Quel negozio apparteneva a mio padre.»
«Abraham?»
«Sì. Ci siamo trasferiti nell'87.»
«Posso chiedere il motivo?»
«Noi abbiamo una clientela rigorosamente kosher. E da questo punto di vista la zona in cui lavoriamo attualmente sembra essere più vantaggiosa.»
«Capisco che la domanda che sto per farle potrà sembrarle strana, signor Cohen, ma... per caso ricorda qualcosa dello scantinato dell'edificio?»
«Alla cantina si poteva accedere dal nostro negozio. Ma noi non tenevamo niente là sotto, e non ricordo di aver mai visto nessuno uscire o entrare.»
«Secondo lei, è possibile che altri inquilini abbiano utilizzato lo scantinato come magazzino?»
«Noi non avremmo dato a nessuno il permesso di utilizzare un nostro spazio a questo scopo. E l'unico modo di scendere era attraverso una piccola porta situata nel nostro bagno. Ricordo che mio padre teneva quella porta sempre chiusa con un lucchetto.»
«Lei sa per quale ragione?»
«Mio padre è molto attento in fatto di sicurezza.»
«Come mai?»
«È un ebreo nato in Ucraina nel 1927.»
«Capisco.»
Stavo brancolando nel buio. Cosa potevo chiedere ancora?
«Lei conosceva l'inquilino che vi ha preceduto o seguito?»
«No.»
«Siete stati in quel posto per almeno sei anni. Per caso la vostra decisione di trasferirvi è stata innescata da qualcosa in particolare?»
«Diciamo che la zona è diventata...» Cohen esitò. «Diciamo... sgradevole.»
«Sgradevole?»
«Sì. Noi siamo Chabad-Lubavitch, dottoressa Brennan. Ebrei ultra ortodossi. E anche a Montréal non sempre siamo capiti.»
Ringraziai Cohen e attaccai.
Al centro del cortile interno, in un'aiuola di pietra, cresce un piccolo abete. Ogni anno, a dicembre, il custode lo addobba con festoni e luci natalizie. E per il signor Winston, che non si distingue per il suo innato buon gusto, le decorazioni di Natale non hanno senso se non sono un arcobaleno di colori.
E il mio gatto è un grande estimatore dello stile del signor Winston. Birdie infatti trascorre ore accoccolato davanti al caminetto dividendo la sua attenzione tra le fiamme e il piccolo miracolo di colori che spicca nella neve.
Anne e io seguimmo l'esempio di Birdie, e ci impigrimmo per tutto il pomeriggio. Trascorremmo lunghe pause sul divano, con i piedi vicino al fuoco. E accompagnate da infinite tazze di tè e di caffè ci lamentammo io di Claudel e Ryan, lei di Tom, a volte ridendo, altre facendoci prendere dallo sconforto.
Dopo ore di chiacchiere, finalmente riuscii a capire la profondità della tristezza della mia amica. Il suo desiderio di svago e di shopping erano soltanto un tentativo di distrarsi. Forza con il cerone e su il sipario. Lo show deve continuare.
Anne era sempre stata una persona insondabile. Io trovai la sua tristezza inquietante e pregai che non si insediasse in lei in modo permanente.
Mentre parlavamo, cercai di pensare a qualcosa di incoraggiante da dirle. O di consolatorio. O che almeno la distraesse. Ma riuscii a trovare solo qualche cliché trito e ritrito. Alla fine mi limitai a mostrarle il mio sostegno. Ma lo stato della mia amica mi preoccupava.
A parte questo, Anne e io ricordammo i momenti belli della lunga amicizia. La sera del bagno nude nel lago. La festa in cui Anne fece una clamorosa caduta. La gita al mare in cui avevamo perso suo figlio Stuart, di appena due anni. Il giorno in cui mi sono presentata ubriaca al saggio di fine anno di Katy.
L'anno in cui mi presentavo ubriaca ovunque.
Tra una chiacchiera e l'altra, controllavamo i nostri messaggi.
Molti da Tom.
Nessuno da Ryan.
E nonostante le mie molte chiamate alla signora Gallant/Ballant/Talent, continuavo a non ricevere da lei nessuna risposta. E nessuna chiamata.
Ogni tanto la conversazione virava sui bottoni di Claudel. Monique Mousseau non aveva azzardato alcuna opinione sull'età o sul significato del falso. Anne e io immaginammo un'infinità di scenari, nessuno dei quali aveva senso. Birdie ci offrì pochi spunti.
Domenica sera convinsi finalmente Anne a parlare al telefono con Tom. In seguito si scolò un bicchiere di vino dietro l'altro. In silenzio.
17
Anne dormiva quando uscii per andare in Istituto, il lunedì mattina. Le scrissi un rapido messaggio in cui le chiedevo di chiamarmi al suo risveglio. Ma già sapevo che non l'avrei sentita prima di mezzogiorno.
Uscendo dal garage, rimasi quasi accecata. Il cielo era terso e il sole finalmente splendeva dopo il lungo fine settimana di neve.
Ancora una volta, l'armata cittadina degli spazzaneve aveva avuto la meglio. Tutte le strade di Centre-Ville erano sgombre, mentre nelle zone più esterne avevano pulito solo le strade principali, orlate di veicoli sepolti oltre i finestrini. Tutte quelle auto ricordavano una fila di ippopotami congelati in un fiume di latte.
Di tanto in tanto incrociavo sconsolati automobilisti, costretti a cominciare la settimana spalando la neve in cui erano stati seppelliti i loro mezzi di trasporto.
Le strade secondarie erano impraticabili, perciò decisi di lasciare la mia auto nel parcheggio del palazzo Wilfrid-Derome. Per raggiungere l'entrata principale, dovetti aggirare alcuni imponenti cumuli bianchi e un piccolo spazzaneve che stava sgomberando il marciapiede con la sua luce ambrata che lampeggiava nella luce cristallina.
I passi suonavano nitidi e scricchiolanti. In lontananza, due rumorosissimi camion davano un fastidioso risveglio ai residenti della zona che ancora dormivano.
La prima sorpresa della giornata si fece avanti mentre controllavo la mia segreteria telefonica.
Michel Charbonneau è un omone imponente, la cui stazza con gli anni non accenna affatto a diminuire e le cui caratteristiche fisiche più evidenti sono il collo taurino, il viso dai tratti marcati e i capelli ispidi. Diversamente dal suo collega Claudel, che ama gli abiti firmati in fibre rigorosamente naturali, Charbonneau propende per sintetici e sottomarche. Quel giorno indossava una camicia color ruggine, calzoni neri e una cravatta che ricordava uno scontro di piazza all'estremo sud di una girandola cromatica. La giacca era di un infelice scozzese marrone e beige.
L'investigatore si mise a sedere e si appoggiò la giacca sulle ginocchia. Notai un'abrasione sulla sua guancia sinistra.
Charbonneau notò che l'avevo notata.
«Dovrebbe vedere come ho ridotto l'altro.»
Sorrise. Lasciò cadere.
Io no.
«Scusi se non ho risposto alla sua chiamata. Claudel e io eravamo impegnati in un'operazione contro uno smercio illecito di narcosostanze, e il cerchio è stato chiuso proprio venerdì. Immagino che ne abbia letto o sentito parlare, no?»
«Veramente non ho letto niente durante il fine settimana.» Anne e io avevamo deciso di rinunciare a ogni forma di giornalismo durante il week-end e di dedicarci esclusivamente a documentari e vecchi film.
«I corpi speciali stavano addosso a quei narcotrafficanti da mesi.»
Lo lasciai continuare.
«Un paio di imprese farmaceutiche stavano smerciando pseudoefedrina sottobanco. È una roba che si usa nella produzione delle metanfetamine. La roba veniva immagazzinata in Québec e nell'Ontano e poi trasportata in tutto il Canada e i sottostanti quarantotto Stati.»
Charbonneau si sporse in avanti e si posò i gomiti sulle ginocchia.
«Questa gente stava rifornendo tutti e due i Paesi da Halifax a Houston. Ne abbiamo portati dentro quarantatré venerdì e altri undici sabato. Un sacco di avvocati staranno già mettendo in banca gli anticipi sulla loro parcella.»
«A questa operazione vi ha preso parte anche Andrew Ryan?»
Charbonneau sorrise, e poi scosse la testa.
«Devo ammettere che anche se lavora per la SQ, il ragazzo è sempre all'altezza della sua leggenda.»
Dire che tra la SQ e la CUM esistesse rivalità, era come dire che tra Palestina e Israele c'era una leggera divergenza di opinione.
«In che senso?» domandai, iniziando a disegnare una serie di quadrati con una penna.
«Sabato mattina a momenti fanno saltare le cervella a Ryan, e sabato sera lo vedo tranquillo e rilassato con una tipetta che aveva metà dei suoi anni.» Charbonneau alzò le mani e disegnò la sagoma di un otto nell'aria. «Pochissimo elasticizzato iperaderente addosso e metri e metri quadri di pelle nuda. Quanti anni avrà, Ryan? Quarantacinque? Quarantasette? La ragazza aveva appena smesso di bere il latte.»
Iniziai a suddividere i quadrati. Disinteressata.
«La ragazza resiste, quindi immagino che il nostro bel tenente abbia ancora quel ci vuole.»
Ryan e io eravamo stati molto discreti. Troppo discreti, direi. E Charbonneau non aveva nessuna idea che avessimo una relazione.
«Resiste?» Apparentemente disinvolta.
Charbonneau scrollò le spalle. «Li avevo già visti insieme.»
«Davvero?»
«Vediamo... quand'era?» Charbonneau cercò di ricordare, senza rendersi conto dell'effetto che le sue parole stavano avendo su di me. «Agosto? Sì, era in agosto. Faceva più caldo che all'inferno.»
Un grosso dito puntò nella mia direzione.
«Era venuto qui per parlare di un caso. Lei era a casa, al sud. Dovevo testimoniare in tribunale, e l'udienza preliminare era stata fissata in agosto. Avevo notato Ryan e la sua reginetta del ballo mentre uscivo dal tribunale. Sì. Era la prima settimana di agosto.»
La prima settimana di agosto. Ryan era a Charlotte. Una chiamata urgente. Problemi con la nipote. Rientro fuori programma in Canada.
Posai la penna e iniziai a pensare al lavoro.
«Monsieur Charbonneau, venerdì l'ho chiamata perché volevo comunicarvi certe importanti informazioni riguardo gli scheletri trovati nello scantinato della pizzeria.»
Charbonneau si appoggiò allo schienale e allungò le gambe. «La ascolto» disse.
«Ho avuto un secondo parere circa i tre bottoni trovati da Said Matoub.»
Charbonneau mi guardò disorientato.
«Il proprietario della pizzeria.»
«Il tizio che ha trovato gli scheletri, giusto?»
«Veramente, li ha trovati l'idraulico, ma non importa. Matoub ha ammesso di essersi infilato in tasca tre bottoni d'argento mentre raccoglieva le ossa.»
«Continui.»
«E il suo collega ha portato questi bottoni al museo McCord per farli stimare.»
«E la signora ha detto che erano vecchi.»
«Antoinette Legault. Ma aveva ragione solo in parte.»
«Ah, sì?»
«Secondo Monique Mousseau, del Pointe-à-Callièrs, solo due dei tre bottoni sono originali dell'Ottocento. Il terzo è una copia.»
«Il che significa?»
«La mia esperta non ha idea.»
«A quando risale questa copia?»
«Non è stato possibile precisare una data, ma questa persona dubita che si tratti di un bottone molto antico.»
«Okay. Quindi è possibile che i bottoni non c'entrino con le ossa.»
«Ha mai sentito parlare di un uomo chiamato Nicolò Cataneo?»
«Nick Knife? E chi non lo conosce?»
«L'edificio che comprende i locali della pizzeria di Matoub attualmente appartiene a Richard Cyr. Cyr ha acquistato la proprietà da Nicolò Cataneo.»
«Ah sì? E quando?»
«Nel 1980.»
Charbonneau cambiò posizione.
«Per quanto tempo Cataneo è rimasto in possesso dell'edificio?»
«Dieci anni.»
Charbonneau aggrottò la fronte.
«Questo per lei ha un qualche significato?»
«Potrebbe.»
«So che Cataneo faceva parte di un certo mondo.»
Charbonneau iniziò a tormentarsi le pellicine delle unghie.
«C'è qualcosa che non mi dice, monsieur Charbonneau?»
Per qualche istante il detective mi guardò indeciso, poi si appoggiò di nuovo allo schienale.
«Negli anni Settanta da queste parti ci fu un gran casino. Il clan dei calabresi e quello dei siciliani si scagliarono l'uno contro l'altro e la lotta di potere finì con l'assassinio di un boss chiamato Paolo Violi.»
«E poi?»
«Arrivò un altro boss.»
In fondo al corridoio sentii squillare un telefono, poi un altro, e un altro ancora. LaManche stava radunando le truppe per la riunione del mattino.
«E poi?»
«Il nuovo boss ruppe con i Bonanno di New York e strinse delle alleanze con la famiglia di Montréal e con la famiglia dei Caruana/Cuntrera.»
«Tutto questo per dire che cosa?» domandai, guardando eloquentemente il mio orologio.
«Fu una mossa molto azzardata.» Charbonneau scrollò le spalle. «Perché un certo numero di gente finì morta ammazzata.»
«E magari anche qualche ragazza?»
Charbonneau scrollò di nuovo le spalle. «Lei ha detto che su quelle ossa non c'erano segni di trauma.»
«Infatti non ne ho trovati. Ha già parlato con il suo collega?»
Charbonneau si toccò un orecchio, guardò altrove e poi tornò su di me. Dopo qualche istante di esitazione, sembrò prendere una decisione.
«Luc ha parlato con Cyr.»
«Lo so.»
«Immagino che non gliene abbia parlato.»
«Infatti.»
«Probabilmente avremmo dovuto farlo.»
«Sì, sarebbe stato carino da parte vostra.»
«Il vecchio Cyr però non ci ha fatto il nome di Cataneo.»
«Forse la cosa dipende dai modi poco urbani del suo collega.»
«Lei ha scoperto qualcosa?»
Gli parlai della lista degli inquilini di Cyr, e delle telefonate che avevo fatto.
«In conclusione, lei chi preferisce? La drag queen o il tizio con il ricciolo e il cappello nero?»
«I Chabad-Lubavitch non portano le peiot e nemmeno lo streimel.»
«Stavo solo scherzando, dottoressa. Secondo lei, qualcuno di loro potrebbe aver avuto un ruolo?»
«Sta chiedendo la mia opinione?»
Charbonneau annuì.
«Non è molto probabile.» Mi alzai.
Charbonneau si alzò a sua volta, si mise il giaccone su un braccio e si tolse un foglietto di tasca. «Dovevo portarle questo.»
Il biglietto conteneva il numero di telefono lasciato dalla signora Ballant/Gallant/Talent, il nome Alban Fisher e un indirizzo di Candiac.
«È il risultato del tabulato telefonico?» mi domandò il detective.
Annuii.
«Qualcuno le sta dando qualche problema, dottoressa?»
«A parte lo schizzato che mi è entrato in casa?»
«E cioè?» Il viso di Charbonneau si fece teso.
Errore.
«No, niente. Comunque, Ryan ha fatto mettere una pattuglia di sorveglianza davanti a casa mia.»
Guardai il foglio che l'investigatore mi aveva passato.
«Questa donna ha chiamato sostenendo di sapere qualcosa sugli scheletri trovati nello scantinato della pizzeria.»
«Che cosa?»
«Che ne so. Ha detto che sapeva che cosa era successo nell'edificio di Cyr.»
«Appena lo sa, mi faccia sapere che cosa le ha detto questa signora. Se non riesce a sentirla entro oggi, magari vado a fare un giro fino a casa sua. E se qualcuno la molesta, dottoressa, mi dica anche questo. Mi raccomando.»
Poi, ancora una volta, Charbonneau ebbe un'esitazione.
«E non si lasci irritare da Luc. Vedrà che prima o poi la smette. E comunque, nemmeno lui sopporta l'idea che qualcuno le dia fastidio. Mi creda.»
Su questo avevo qualche dubbio.
Dopo essere sopravvissuta al campo minato della conversazione con Charbonneau, sarei dovuta essere pronta per la sorpresa che mi aspettava. Invece non lo ero.
Quando arrivai in sala riunioni, i miei cinque colleghi patologi erano impegnati in una vivace discussione.
Borbottai qualche parola di scusa per il ritardo e LaManche mi passò una fotocopia.
Tre autopsie erano già state assegnate. Pelletier aveva due tossicodipendenti trovati nella fermata del metrò di Lionel-Groulx. Morin doveva occuparsi di un ciclista investito da un mezzo dei vigili del fuoco.
Voltai il foglio e scorsi rapidamente gli altri due casi.
Un uomo ritrovato a testa in giù sotto la scala della Drummond, lato Mont Rovai.
NOM DU DECÈDÈ |
Inconnu |
|
|
Una donna trovata morta nel suo letto. |
|
|
|
NOM DU DECÈDÈ |
Louise Parent |
DATE DE NAISSANCE |
18 giugno 1943 |
INFORMATION |
Mort suspecte |
Spostai gli occhi sulla riga successiva.
E mi sentii cadere il mondo addosso.
18
La voce di LaManche si fece distante e la stanza intorno a me si fece più vaga.
D'istinto, cercai nella tasca del camice e presi il foglietto avuto da Charbonneau.
Gesù santo!
L'indirizzo che stavo leggendo corrispondeva a quello sulla fotocopia di LaManche.
Mentre fissavo il nome della donna, LaManche lo pronunciò.
«Louise Parent.»
Ballant. Gallant. Talent. Parent.
Mi sentii serrare il petto dalla tensione.
«Chi l'ha scoperta?»
Tutti si voltarono, sorpresi dalla mia veemenza.
Senza parlare, LaManche prese il verbale di polizia.
«Claudia Bastillo. La nipote della vittima.»
«Che cosa è successo?»
LaManche lesse in silenzio per qualche secondo.
«La signora Bastillo aveva l'abitudine di parlare regolarmente con la madre. Questa, Rose Fisher, e Louise Parent, la vittima, erano sorelle e condividevano la stessa residenza, a Candiac.»
LaManche elencò i fatti più salienti.
«Durante il fine settimana, Claudia Bastillo ha chiamato più volte ma non ha mai ricevuto risposta, così questa mattina presto la donna è andata a controllare di persona. E ha trovato il corpo della zia nel letto.»
Dio santo! Anch'io avevo cercato di chiamare Louise Parent durante il fine settimana, proprio come la nipote!
«Rose Fisher sta bene?»
LaManche finì di leggere.
«Il verbale non dice niente di madame Fisher. Immagino che la signora sia ancora tra i vivi, visto che qui non è arrivata.»
«Causa del decesso?» Mi resi conto della stupidaggine, appena pronunciai quelle parole.
LaManche mi guardò da sopra gli occhiali.
«Questo è il motivo per cui l'hanno portata da noi.»
Le domande iniziarono ad affollarmi la mente.
Omicidio o terribile coincidenza? Louise Parent era stata uccisa o era morta di cause naturali? La sua morte era da mettere in relazione con le telefonate che aveva fatto a me?
E le chiamate erano effettivamente state fatte da Louise Parent?
Dire qualcosa? Tacere?
Guardai la riga che indicava il corpo di polizia competente.
Sûreté du Québec.
Decisi di aspettare finché non avessi parlato con gli agenti incaricati delle indagini. E finché LaManche non avesse concluso la sua autopsia.
«Dottoressa Santangelo, potrebbe occuparsi dell'uomo trovato sotto la scala?» proseguì LaManche.
Emily Santangelo spuntò la sua lista.
«Io prenderò madame Parent, quando arriverà» disse LaManche.
Il mio capo scrisse «La.» accanto al nome della donna. Conclusa la riunione, tutti uscirono per mettersi al lavoro.
Rientrata nel mio ufficio, digitai subito il numero di Ryan. Mi rispose al primo squillo.
«Chi lavora al caso di Louise Parent?»
«Sì, è bello sentire la tua voce. Sì, è vero, oggi è un po' più caldo. Sì, ho avuto un week-end di merda» disse Ryan.
«Com'è stato il week-end?»
«Una merda.»
«La grande operazione?»
«Tutto finito.»
«Adesso sei libero?»
«Sì.»
Aspettai. Lui non aggiunse altro.
«Allora, chi si occupa del caso Parent?»
Dai rumori che sentivo in sottofondo, capii che Ryan era in centrale, e quindi pochi piani sotto di me.
«Candiac, hai presente?» specificai. «Una donna di sessant'anni trovata morta nel suo letto questa mattina... Chi ci lavora?»
«Stai parlando con la persona giusta, piccola.»
«Be', non ti hanno dato molto tempo per riprenderti.»
«Che vuoi, pare che qui sentissero molto la mia mancanza.»
«Hai già trovato qualcuno che venga in giro con te?»
Alcuni anni prima, il compagno di Ryan era morto in un incidente aereo mentre scortava un prigioniero dalla GeOrgia a Montréal. Da allora, Ryan aveva sempre lavorato solo, passando da un incarico speciale all'altro.
«No. Pare che abbia un carisma soverchiante.»
«Magari, è solo una questione di dopobarba.»
«Diciamo che mi piace navigare in solitaria.»
«Perché Louise Parent è considerata una mort suspecte?»
«Immagino perché la sua morte è sembrata sospetta.»
«Senti, vuoi smetterla di scherzare, per favore?»
«La vittima era in buona salute e di un'età non così avanzata. Nessun guasto al riscaldamento. Niente perdite di gas o di anidride carbonica. Niente precedenti di depressione o cose simili. Niente lettera o biglietto che spieghi il suicidio. La sorella sessantaquattrenne della vittima non si sa dove sia. Scomparsa. Secondo la polizia di Candiac, c'erano gli estremi per una visita dei fratelli più grandi.»
«LaManche eseguirà l'autopsia questa mattina.»
Immaginai Ryan seduto alla sua scrivania con il telefono appoggiato sulla spalla.
Immaginai Ryan sdraiato nel mio letto.
Immaginai Ryan fare il cretino con una ragazzina.
«Il corpo è stato trovato dalla nipote. La donna sostiene che non è abitudine di sua madre andare via senza dirle niente.»
«Rose Fisher?»
Rumore di fogli.
«Centro.»
«La state cercando?»
«Sì, signora.»
«Chi è Alban Fisher?»
Attimo di esitazione. «Posso scoprirlo. Perché?»
«Ricordi la donna che mi aveva telefonato per parlarmi degli scheletri nella pizzeria?»
«Sì.»
«Le due chiamate arrivavano dalla casa di Rose Fisher, a Candiac.»
«La Parent?»
«Con la linea disturbata, potrebbe essere.»
«Il telefono è intestato ad Alban Fisher, giusto?» indovinò Ryan.
«Sì.»
«Alban è in elenco?»
«Un momento.»
Posai la cornetta, presi l'elenco del telefono e cercai sotto la F.
Talvolta il lavoro di investigatore non richiede una grande genialità. Alban Fisher era in elenco e risultava abitare all'indirizzo di Candiac.
«Sì, c'è.»
«La nipote non ha parlato di nessun altro. Ha dichiarato che la donna viveva sola. Adesso le telefono.»
«Ti richiamo quando LaManche ha finito.»
«Potrebbe essere un semplice infarto.»
«Potrebbe.»
«Succede di continuo.»
«Seconda causa di morte.»
«Sicura che la nostra vecchia pompa non sia la numero uno?»
«No.»
«Ci sono altre novità?»
«Veramente, sì.»
Gli parlai del bottone falso. Lui mi chiese secondo me che cosa significava e io risposi che non ne avevo idea.
Poi gli dissi di Nicolò Cataneo.
Ci fu una pausa, e dopo la voce di Ryan era diversa. In un certo senso, più dura.
«Questa storia non mi piace, Tempe. Per quella gente la vita delle persone non ha più valore del filo interdentale. Guardati la schiena.»
«Non manco mai di farlo.»
«Hai fatto riparare la vetrata?»
«Sì.»
«Mi sei mancata, questo fine settimana.»
«Davvero?»
«La tua amica è ancora qui?»
«Sì.»
«Quando se ne va, dobbiamo parlare.»
«Anne non morde.»
Lungo silenzio. Fu Ryan a interromperlo.
«Fammi sapere che cosa dice LaManche. Se non ci sono, lasciami un messaggio.»
Prima di procedere con l'esame del terzo scheletro, andai nella sala autopsie principale. Pelletier aveva il primo dei due tossicodipendenti sul tavolo operatorio numero 1. LaManche aveva Louise Parent sul numero 2.
La donna era arrivata in Istituto con indosso una camicia da notte. Il lungo indumento di flanella giaceva steso sul bancone. Rose rosse su fondo rosato. Il davantino era orlato di pizzo e chiuso con una fila di bottoncini a perla.
Un ricordo. Mia nonna che andava a dormire con le ciabatte di panno scozzese e una tazza di camomilla in mano.
Lo sguardo si spostò sul corpo.
Madame Parent sembrava piccola e triste sulla superficie di metallo perforato. Così sola. Così morta.
Una fitta di dolore.
La scacciai.
LaManche delicatamente girò la testa della donna. Le aprì la mandibola. Sollevò una spalla. La schiena e il fondoschiena erano bluastre.
LaManche premette un dito contro la carne livida. Il punto in cui aveva premuto non sbiancò.
Il patologo lasciò che il corpo si adagiasse nuovamente sul dorso, poi sollevò una mano. Alcune squame sottili come carta si stavano staccando dagli strati sottostanti del derma.
«La lividura cadaverica è permanente. Il rigor mortis è già scomparso. La desquamazione è appena iniziata.»
Mentre LaManche appuntava le sue annotazioni, lasciai vagare il mio sguardo sulla geografia del corpo che avevo davanti.
I muscoli della donna avevano perso il loro tono, i capelli erano grigi, la pelle pallida, quasi trasparente. Il seno giaceva abbandonato sul petto. La pancia stava diventando verde.
«Secondo te da quanto tempo è morta?» domandai.
«Non vedo marmorizzazione, niente gonfiore, solo un primissimo stadio di putrefazione. La casa era calda, ma non caldissima. Ovviamente, devo controllare il contenuto dello stomaco e i fluidi oculari, ma a questo punto potrei dire dalle quarantotto alle settantadue ore.»
Un'altra fitta di dolore.
Avevo parlato con quella donna il mercoledì. Mi aveva richiamata il giovedì. La data del decesso stimata da LaManche corrispondeva al venerdì o al sabato.
Notai una sottile linea bianca sull'addome.
«Sembra che abbia avuto un'operazione.»
LaManche stava già disegnando la cicatrice in un grafico.
Il mio sguardo si spostò sul viso della donna.
Gli occhi erano socchiusi e coperti da strisce scure.
Con la morte, i muscoli delle palpebre si rilassano e scoprono le cornee, permettendo al tessuto epiteliale di asciugare. Tache noir sclérotique. Normale. Ma il cambiamento conferiva a Louise Parent l'aspetto macabro di un morto per incidente del giorno prima.
Mi chinai ed esaminai i denti. Erano puliti e solo moderatamente scoloriti. Le gengive mostravano solo un lieve gonfiore e riassorbimento.
Mi stavo alzando, quando il mio sguardo fu attirato da qualcosa incastrato tra l'incisivo laterale e il canino destro. Mi avvicinai.
In effetti c'era qualcosa.
Presi una lente da un cassetto e tornai al tavolo operatorio.
Sotto la lente, i particolari erano più chiari.
«Dottor LaManche» dissi. «Potrebbe dare un'occhiata qui?»
19
LaManche si spostò dalla mia parte del tavolo e dopo aver preso la lente esaminò i denti della donna.
«Una piuma.»
«Già» concordai.
LaManche utilizzò una pinzetta per trasferire la piuma in una fialetta di plastica. Quindi aprì le mandibole della signora Parent per esaminare i denti posteriori.
«Non ne vedo altre.» Il suono arrivò attutito dalla mascherina.
«Luma-Lite?»
«Sì, grazie.» Il patologo si rivolse alla tecnica di laboratorio. «Lisa?»
Mentre io prendevo lo strumento da un armadietto, Lisa trasferì la donna su una lettiga e la trasportò nell'attigua sala radiologica. Quando la raggiunsi, Lisa aveva già sistemato la camicia da notte della donna sul tavolo.
LaManche e io indossammo gli speciali occhialini arancioni e Lisa collegò il Luma-Lite a una presa elettrica. Lo strumento era una fonte di luce alternata composta da una scatola nera e un cavo in fibra ottica blu potenziata con cui avremmo potuto rilevare tracce altrimenti invisibili a occhio nudo.
«Pronti?» domandò Lisa.
LaManche annuì.
Lisa si infilò gli occhialini e accese la luce.
Al buio il patologo iniziò a esaminare la camicia della donna. Qui e là qualche capello si illuminava come un minuscolo cavo bianco. E ogni volta Lisa lo raccoglieva con le pinzette e lo trasferiva in una fíaletta di plastica.
Una volta concluso l'esame della camicia da notte, LaManche si concentrò sul corpo. Lentamente, la luce passò sui piedi e sulle gambe di Louise Parent, sondò le colline e le valli della zona pubica, l'addome, la cassa toracica, il petto. Illuminò l'avvallamento alla base della gola.
Non vedemmo splendere più nulla, a parte qualche altro capello.
«Sembrano identici a quelli della sua testa» dissi.
«Già» concordò LaManche.
Le mani e le unghie della donna non produssero nulla, così come occhi, narici e orecchie.
Poi il raggio di luce penetrò la buia cavità della bocca.
«Bonjour!» esclamò Lisa nell'oscurità.
Un molare si illuminò come fosforo lungo il margine della gengiva.
«Questo non è un capello» dissi.
Lisa prelevò il corpo estraneo con le pinzette.
Nonostante lavorammo per altri minuti al buio, i nostri sforzi produssero solo altri due capelli, entrambi sottili e ondulati come quelli della vittima.
Quando Lisa riaccese la luce, LaManche e io tornammo in sala autopsie. Qui il patologo aprì la fialetta con la particella estratta dal molare e ne esaminò il contenuto con la lente di ingrandimento. Passò almeno un decennio prima che parlasse.
«È un altro frammento di piuma.»
LaManche e io ci scambiammo un sguardo, mentre il medesimo sospetto ci attraversava la mente.
In quel momento, Lisa tornò con la signora Parent. LaManche si avvicinò subito alla lettiga, e io lo seguii.
Il patologo strinse il labbro superiore tra due dita e lo sollevò. La superficie interna appariva normale.
Ma quando abbassò il labbro inferiore, notai che alcune minuscole lacerazioni solcavano la carne liscia e violacea. Ciascuna corrispondeva al margine di un incisivo inferiore.
Con il pollice e l'indice, il patologo sollevò le palpebre sinistre. Poi quelle destre. Entrambi gli occhi mostravano segni di emorragia petecchiale, puntini rossi e rigonfiamento della sclerotica e della congiuntiva.
«Asfissia» dissi, mentre una serie di immagini terribili mi attraversava la mente.
Vidi la donna sola nel suo letto, nel suo rifugio. Una sagoma nascosta nel buio. Due mani che le stringevano la gola. Mancanza di ossigeno. Il cuore che scoppiava nel petto per il terrore.
«L'emorragia petecchiale può essere causata da molti fattori, Temperance. La sua presenza indica semplicemente che si è verificata una rottura dei capillari.»
«Provocata da un aumento improvviso della congestione vascolare nella testa» dissi.
«Sì» confermò LaManche.
«Come accade nello strangolamento» aggiunsi.
«L'emorragia petecchiale può insorgere anche per un colpo di tosse violento, per uno starnuto, per il vomito, per difficoltà nella defecazione, durante il travaglio per le donne incinte...»
«Non credo che questa donna stesse per avere un figlio.»
LaManche continuò a parlare e intanto premette leggermente con il dito la gola di Louise Parent.
«... per l'ostruzione provocata da un corpo estraneo, per l'inserimento di un divaricatore boccale, per il gonfiore della membrana esterna che riveste le vie respiratorie.»
«Ma qui se non sbaglio non esiste alcuna traccia di questi fattori.»
LaManche alzò lo sguardo verso di me.
«Sono appena all'inizio dell'esame esterno.»
«Potrebbero averla soffocata.»
«Non ci sono graffi né unghie spezzate. Nessun segno di violenza né di lotta.» Parlava più a se stesso che a me.
«Potrebbero averla soffocata nel sonno. Con un cuscino.» Stavo dando voce ai miei pensieri via via che si formavano nella mia mente. «Un cuscino non avrebbe lasciato segni. Un cuscino spiegherebbe le piume in bocca e i tagli sotto le labbra.»
«Una lieve emorragia petecchiale non è rara nei cadaveri trovati in posizione prona e con la testa più bassa rispetto al resto del corpo.»
«La lividura cadaverica sul dorso e le spalle sembra suggerire una morte in posizione supina.»
LaManche si allontanò dal cadavere. «L'investigatore Ryan ha promesso di farmi avere le fotografie scattate sul luogo del ritrovamento questo pomeriggio.»
I nostri sguardi si incrociarono per un istante. Poi mi abbassai la mascherina e raccontai a LaManche la storia della signora Parent.
Quando terminai il mio racconto, i suoi vecchi occhi si posarono sui miei. Poi: «La ringrazio per avermi messo a parte del suo speciale interessamento alla vittima. Le prometto che sarò particolarmente accurato nell'eseguire l'esame interno».
In realtà era una rassicurazione assolutamente non necessaria, perché sapevo che LaManche sarebbe stato meticoloso con Louise Parent quanto con qualunque altro cadavere, fosse quello del primo ministro o di un ladruncolo. Pierre LaManche semplicemente rifiutava l'idea di una morte senza spiegazione.
Alle dieci e mezzo iniziai a occuparmi dello scheletro trovato nel secondo avvallamento dello scantinato avvolto nel suo strano involucro.
Alle undici e mezzo avevo liberato lo scheletro dal suo sudario di cuoio, asportato il calco di terra e adipocera e disposto le ossa in ordine anatomico sul tavolo operatorio.
Alle tre e quaranta avevo concluso l'inventario e il mio esame.
Lo scheletro indicato con il numero LSJML 38428 apparteneva a una femmina bianca, altezza compresa fra i 162 e i 170 centimetri. Età stimata al momento del decesso: tra i diciotto e i ventidue anni. Scarsa igiene dentale, nessuna otturazione, frattura di Colles al radio destro ben consolidata. Lo scheletro mostrava minime alterazioni postmortem e non presentava segni evidenti di trauma verificatisi durante o in prossimità del momento del decesso.
Le mie conclusioni preliminari si erano rivelate corrette. Anche se poco più grande di età, la terza ragazza presentava le stesse inquietanti caratteristiche delle altre due.
Stavo scrivendo qualche appunto, quando sentii la porta dello spazio antistante la sala autopsia aprirsi e chiudersi. Dopo qualche secondo arrivò LaManche. Dalla sua espressione capii che non era venuto a parlarmi di un aneurisma.
«Ho rilevato un eccesso di emoglobina non ossigenata nel sangue venoso, indicante cianosi.»
«Quindi asfissia?»
«Sì.»
«Nient'altro?»
«Niente di atipico in una donna nel settimo decennio di vita.»
«Perciò, potrebbe essere stata soffocata?»
«Sì, temo che esista questa possibilità.»
«Ferite?»
LaManche scosse la testa. «Niente fratture. Niente emorragia. Niente graffi o segni di unghiate. Sotto le unghie non ho trovato tessuti di nessun genere. Niente che suggerisca una colluttazione.»
«Potrebbe essere stata aggredita nel sonno. O drogata.»
«Richiederò un esame tossicologico completo.»
Di nuovo, la porta esterna si aprì e richiuse. Poi un rumore di passi risuonò nell'ufficio davanti alla sala autopsie.
Quel giorno Ryan era in versione casual. Camicia sportiva, jeans, cardigan di lana con toppe sui gomiti.
Ryan e LaManche si scambiarono un «bonjour».
Ryan e io ci scambiammo un cenno della testa.
LaManche mise il detective al corrente delle sue conclusioni.
«Ora approssimativa del decesso?» domandò Ryan.
«Nell'appartamento ci sono tracce di un ultimo pasto?»
«Casseruola, cucchiaio e bicchiere sullo scolapiatti. Barattolo di minestra vuoto nella pattumiera. Passato di verdura.»
«I contenuti dello stomaco erano stati completamente evacuati. Questo succede nel giro di tre ore dal momento dell'ingestione.»
«La nipote dice che le signore in genere cenavano verso le sette, e andavano a dormire verso le nove o le dieci.»
«Ammesso che la minestra fosse la cena, e non il pranzo.» LaManche alzò un dito. «E tenga anche presente che la fisiologia gastrica è estremamente variabile, e soggettiva. Lo stress nervoso, per esempio, e alcune malattie possono ritardare lo svuotamento dello stomaco.»
Ripensai alla voce esistente che avevo sentito dall'altra parte del filo. L'agitazione di Louise Parent era palpabile anche a distanza.
«Richiederò un mandato per consultare i tabulati telefonici.»
«Comunque lo stato di decomposizione suggerisce che la morte è avvenuta con molta probabilità venerdì. E adesso» LaManche intrecciò le mani dietro la schiena «monsieur Ryan, vediamo che cosa ci ha portato.»
Ryan prese una busta marroncina da una tasca della giacca e sparpagliò una serie di fotografie a colori sul banco di lavoro.
Una alla volta, quelle immagini otto per tredici ci portarono sulla scena dell'ultimo giorno di Louise Parent.
Veduta esterna di una villetta in mattoni chiari. Sentierini sgombri. Veranda. Finestre decorate con fili di luci colorate. Porta blu di legno. Ghirlanda con la scritta JOYEUSES FÊTES! su un nastro di velluto rosso. Prato con renna finta.
Cortile sul retro recintato, un'altalena per bambini. Tettoia in cemento antighiaccio. Pala da neve.
Senza commentare, LaManche e io osservammo le fotografie.
Primi piani della porta principale e di quella di servizio, con maniglie e serrature intatte.
La cucina inquadrata da destra, poi da sinistra. Fornelli, frigorifero, piano di lavoro e lavello in acciaio. Mobiletto con asse di legno incorporato.
Un cucchiaio, una tazza e una casseruola sullo scolapiatti.
«Il posto sembra in ordine» osservai.
«Non c'era niente fuori posto» confermò Ryan. «Nessun segno di effrazione. Nessun segno che lasci intuire la presenza di un'altra persona.»
«Le porte erano chiuse a chiave?» domandò LaManche.
«Claudia Bastillo dice di sì, ma non potrei giurarci.»
«Sarebbe la nipote?»
Ryan annuì. «Claudia Bastillo ha ricevuto una chiamata al cellulare appena è arrivata davanti alla porta della madre. Ricorda di aver avuto qualche problema nel trovare le chiavi, ma poi ha pensato che fosse perché stava reggendo il telefono con una mano e al tempo stesso cercando di aprire la porta con l'altra. Ma ammette che se non fosse stata chiusa a chiave, avrebbe anche potuto chiuderla lei e poi riaprirla senza rendersene conto.»
«La casa aveva un impianto antifurto?» chiese LaManche.
Ryan scosse la testa, poi estrasse di tasca un'istantanea e la passò a LaManche. Il patologo la passò a me.
L'immagine mostrava una donna piuttosto robusta, con capelli color albicocca e un trucco degno di Jackson Pollock. Aveva l'aria di essere oltre la sessantina.
«Rose Fisher?» domandai.
Ryan confermò.
Restituii le istantanee e tornai alle immagini della casa di Louise Parent.
Soggiorno con divano e poltrone coperte di centrini. Finestre con tendine di pizzo. Veneziane chiuse. Gabbia su trespolo decorato.
Mi venne in mente il cinguettio che avevo sentito in sottofondo durante la chiamata di Louise Parent.
«Nella gabbia che cosa c'era?» chiesi, desolata.
«Una specie di piccolo pappagallo grigio con la cresta gialla e le guance arancioni. Pare si chiami cacatua delle ninfe.»
Come quello di Katy. Erano quelli i suoni che avevo cercato di riconoscere al telefono.
«Chi se ne occupa?»
Ryan mi guardò stranito. «Claudia Bastillo.»
«La sorella della vittima si è fatta viva?» domandò LaManche.
«Rose Fisher? No.»
«E che cosa pensate di fare?»
«Claudia Bastillo dice che la madre e la zia spesso facevano delle gite. Però la avvertivano sempre.»
«Così poteva occuparsi degli uccellini» supposi.
Ryan annuì.
«E queste signore, quando partivano per le loro gite, usavano l'automobile?» domandò LaManche.
«Quella di Rose Fisher. Una Pontiac Gran Prix del '94.»
«Il veicolo adesso dove si trova?»
«Non a casa di Rose Fisher. Ho fatto richiesta per effettuare le ricerche. Se è fuori da qualche parte, qualcuno sicuramente riconoscerà la targa.»
«Chi è Alban Fisher?» domandai.
«Il marito di Rose. Un commercialista. Morto nel '94. Rose non si è mai preoccupata di cambiare il nome sull'elenco del telefono.»
«La Bastillo potrebbe aiutarci a capire se esiste qualcuno che poteva volere il male della madre o della zia?»
«Le due donne avevano una questione in sospeso con un vicino perché parcheggiava una SUV troppo vicina al loro vialetto. La nipote insiste che dovremmo controllare questo tizio.»
«La nipote sembra credibile?» domandai.
«Non credo potrebbe partecipare a una tavola rotonda alla Berkeley University, ma sembra abbastanza sincera.» Poi Ryan si rivolse a LaManche. «Se lei mi dice che si tratta di presunto omicidio, inizio a scavare nel passato della signora.»
LaManche e Ryan diventarono voci incorporee mentre io continuavo ad analizzare le fotografie.
Un corridoio. Una camera da letto. Un bagno. Una seconda camera da letto, leggermente più piccola della prima. Specchiera di acero, comodino, letto a baldacchino.
Corpo senza vita.
Louise Parent giaceva sotto le lenzuola rosa pallido, non più grande di una bambina. Era voltata verso la porta, il braccio destro alzato, la testa abbandonata su un cuscino. Gli occhi erano vuoti e oscuri. Qualche ciocca di capelli grigi le ricadeva sul viso.
Una trapunta rosa a motivi floreali era ordinatamente piegata ai piedi del letto, sormontata da un secondo cuscino. Senza federa.
«Claudia Bastillo ha spostato il corpo?» domandai.
«Dice che quando ha trovato la zia ha pensato che fosse svenuta e ha provato a farla rinvenire.»
«Ha toccato il cuscino?»
«Non ricorda.»
Sotto il letto notai le ciabatte, perfettamente allineate. Sul comodino, un paio di occhiali, una tazza e un flacone di pillole.
«Sono le stesse pillole di sonnifero che avete consegnato a noi?» domandò LaManche.
«Sì. Il flacone è stato riempito dal farmacista mercoledì scorso. Dall'etichetta risulta che in origine erano trenta. Me mancano otto.»
«Conoscete il contenuto della tazza?»
«Acqua. La nipote ha detto che l'ha riempita lei quando ha visto che non riusciva a far rinvenire la zia. Dice che era sconvolta. Che non sapeva cosa fare.»
«L'ha trovata vuota?»
«Crede di sì. Tenga presente che questa Bastillo non è che quel che si dice un'aquila.»
«Avete trovato altri medicinali, a parte quelli che ci avete mandato insieme al corpo?»
«No, le pastiglie per l'artrite ve le abbiamo mandate. A parte quelle, solo le solite medicine che si tengono in casa. Aspirina. Calcio in compresse. Farmaci da banco contro le allergie.»
«La tazza sul comodino? Non era una cosa strana?» domandai.
«Secondo la nipote, sua madre quando russa provoca delle scosse sismiche del settimo grado sulla scala Richter. Louise Parent aveva il sonno leggero, così prima di andare a dormire aveva l'abitudine di prendere un paio di pillole di sonnifero con la tisana. Ammesso che la tazza fosse piena, e non ne è sicura, Claudia Bastillo dice che avrebbe pensato che fosse camomilla e l'avrebbe svuotata.»
«Forse non sarebbe una cattiva idea prendere quella tazza» osservai.
«Sì, signora» rispose Ryan annuendo con aria compresa.
Mi sentii avvampare. Era ovvio che avevano prelevato la tazza.
«Possiamo procedere con l'analisi dell'amilasi sulla saliva che Louise Parent ha lasciato sul cuscino, anche se non sarà particolarmente significativo» disse LaManche.
«Le vecchiette sbavano» dissi.
«Già. Tutti sanno che è così» concordò Ryan.
«Per caso siete riusciti a capire quando Rose Fisher ha dormito a casa per l'ultima volta?» domandò LaManche.
«Il letto era fatto. La camicia da notte era appesa dietro la porta del bagno.» Ryan puntò il dito verso di me. «E niente tazze sul comodino.»
Non mi venne in mente nessuna risposta brillante.
«Claudia Bastillo ha detto che la madre spesso si ritirava più tardi della zia» aggiunse Ryan.
Dopodiché tutti e tre studiammo le fotografie per un minuto buono. E Ryan disse a LaManche: «Allora, che cosa mi dice, dottore? Omicidio?».
LaManche distolse lo sguardo dalle immagini. Aveva ancora le mani intrecciate dietro la schiena.
«Forse è meglio che continui a indagare, tenente. Direi che si tratta di un caso decisamente sospetto. La terrò informata circa i risultati degli esami tossicologici.»
Quando LaManche uscì dalla sala autopsie, Ryan e io osservammo le foto ancora per qualche minuto, mentre una sensazione di piombo mi serrava lo stomaco.
Fui io a parlare per prima.
«L'hanno uccisa.»
«LaManche non sembra del tutto convinto» rispose Ryan con un tono molto ragionevole.
«Louise Parent mi chiama dicendo di avere delle informazioni riguardo tre ragazze morte. E quattro giorni dopo la trovano morta nel suo letto con delle piume in bocca.»
«Le donne anziane muoiono.»
«Allora dov'è la sorella?»
«Questo è un mistero.»
«Che cosa mi voleva dire Louise Parent su quelle ossa?»
«Anche questo è un mistero.»
Ryan mi fece l'occhiolino.
Ma io non sentii il solito solletico allo stomaco.
Respirai a fondo.
«Andy, che cosa sta succedendo?»
Ryan mi guardò con gli occhi più azzurri di una baia alle Bahamas.
Dentro la mia testa si scatenò una furiosa lotta di potere. Pro: chiedigli conto della lolita con cui l'ha visto Charbonneau. Contro: tieniti la cosa per te.
Vinsero i contro. Era molto più saggio non dire nulla.
Ma poi, inspiegabilmente, cambiai idea.
«Questa mattina Charbonneau mi ha detto una cosa strana.»
«Se ti riferisci alla sparatoria di sabato, non è stata poi così terribile.»
«Mi ha detto che lo scorso agosto ti ha visto in tribunale.»
«Sai com'è... sono un tipo sempre molto impegnato.» Sorriso da bravo ragazzo.
«La settimana in cui sei partito da Charlotte.»
L'uomo con gli occhi più blu dell'acqua delle Bahamas non fece una piega.
«Sì. Avevo dei problemi famigliari e dovevo andare in Nuova Scozia.»
Calma, Brennan.
«Pare che non fossi solo, in tribunale.»
«Non è come pensi tu.»
«E che cosa penso, io?»
Per un attimo Ryan smise di sorridere. Solo per un attimo. Poi mi sfiorò una guancia con la punta delle dita e raccolse le fotografie dal piano di lavoro. Per un tempo infinito i suoi occhi non lasciarono i miei. Poi: «Lo sai che ti amo, pasticcino».
Mi guardai le scarpe, il petto agitato da mille emozioni.
Chiusi gli occhi.
La porta della stanza si aprì. Poi si chiuse.
Quando li riaprii, Ryan non c'era più.
Per i tre giorni che seguirono non successe niente di particolare.
Finché non riuscii a giungere a un primo indizio utile.
E il secondo.
E il terzo.
20
Per qualche giorno nessun morto della provincia ebbe bisogno di essere esaminato dall'antropologa forense. Non ci furono cadaveri decomposti in auto abbandonate. Niente corpi mummificati in soffitta. Non una sola porzione di corpo congelata.
Il martedì cercai ancora di chiamare Ménard e Truong, ma poi fui distolta da verbali, e-mail e corrispondenza varia. Anne dormì fino alle due, poi senza troppo entusiasmo guardò soap e repliche di ogni genere. Parlò molto poco, anche se io mi ero tenuta il pomeriggio libero per stare con lei. A cena bevve una bottiglia di Lindenmans quasi intera, si dichiarò molto stanca e si trascinò a letto alle dieci. Ma quanto può essere stanca una persona che è rimasta alzata solo otto ore e non ha fatto nulla per tutto il tempo?, mi domandai.
A dicembre, gli artigiani di tutta la provincia convergono a Montréal per vendere i loro articoli al Salon des métiers d'arts du Québec. Il mercoledì svegliai Anne a mezzogiorno e le proposi un'uscita di shopping natalizio.
Lei rifiutò.
Ma io insistetti.
A Place Bonaventure c'erano solo qualche milione di persone. Io comprai una tazza di ceramica per Katy, un sostegno per pipa di quercia intagliata per Pete, una sciarpa di lana d'alpaca per Harry. Birdie e Boyd, il convivente canino di Pete, a Charlotte, rimediarono due elegantissimi collari in pelle scamosciata. Verde bosco per il chow-chow e albicocca per il gatto.
Una vetrina con articoli di seta dipinta a mano mi fece venire in mente Ryan. Foulard da collo? Forse non era il caso.
Anne si trascinò da un banchetto all'altro come in letargo, mostrando il livello di interesse di una cavia da laboratorio. Le comprai una fetta di torta, provai dei cappelli buffi. Provai perfino il collare del cane. Ma la mia amica, nonostante gli sforzi, era sprofondata in una sorta di apatia e non sembrava neppure vedermi. Niente la divertiva. Non fece neppure un piccolo acquisto.
La depressione di Anne aveva raggiunto profondità sconosciute anche nella fossa delle Marianne.
Per tutto il giorno la abbracciai e cercai di dirle parole confortanti. Ma a parte questo non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare. Anne semplicemente non comunicava, il che per lei era una condizione del tutto innaturale.
A cena, si limitò a mangiucchiare un po' di sushi, e di nuovo abbondò con il bere. Arrivate a casa, disse di nuovo di sentirsi molto stanca e si ritirò nella sua stanza.
Non avevo mai visto la mia amica così e non riuscivo a valutare la gravita della sua situazione. Sapevo che qualcosa andava malissimo, ma fino a che punto ero autorizzata a interferire? Forse il suo pessimo umore nel giro di qualche giorno sarebbe svanito.
Andai a dormire preoccupata e sognai di Anne su una spiaggia buia e deserta.
Il giovedì mattina, tra le e-mail in arrivo trovai i risultati della datazione al carbonio 14 eseguita da Arthur Holliday.
Ma dopo aver letto la riga dell'oggetto, mi accorsi che le mie dita si erano paralizzate sulla tastiera.
Ero impaziente di leggere quel referto. E allora perché adesso esitavo?
Facile. Dentro di me, rifiutavo di ricevere conferma di una ennesima violenza perpetrata su giovani donne innocenti.
Non volevo sapere che la vita di qualcuno aveva appena superato l'infanzia e se n'era andata. E per mano di chi? Di qualche perverso con la testa piena di pornografia che riesce a vivere la sessualità solo attraverso la sottomissione fisica? O di un maniaco psicopatico con videocamera che poi deve distruggere le prove di ciò che ha fatto? O di un macho mutante che considera le donne semplici articoli usa e getta, di cui liberarsi dopo l'ennesimo abuso? Tutte queste persone purtroppo erano in giro per il mondo.
Avrei quasi preferito che avesse ragione Claudel. E che quelle ossa appartenessero al lontano passato. A qualche figlia di un'altra era sepolta a riposare in pace da famigliari in lutto. Ma sapevo che non era così. Sapevo che avrei dovuto affrontare l'evidenza se avessi voluto contribuire a identificare le vittime.
Profondo respiro.
Aprii il file dell'allegato con Acrobat.
La trasmissione consisteva di due pagine. Una lettera con il risultato delle analisi al radiocarbonio, e tre curve di calibrazione che riportavano le età stabilite dalla datazione al carbonio 14 rispetto agli anni di calendario.
Guardai le età misurate al radiocarbonio e quelle di riferimento, poi passai alle curve di calibrazione.
Una girandola di immagini si alternarono nella mia mente.
Stampai il referto e andai in Istituto.
Trovai LaManche nel suo ufficio. Dopo il nostro ultimo incontro, lui o la sua segretaria avevano aggiunto un alberello di Natale in ceramica al caos che affollava la sua scrivania.
Bussai alla porta con le nocche.
LaManche alzò lo sguardo.
«Temperance. Entri, prego. Ha sentito la notizia?»
Lo guardai confusa.
«La giuria ha deciso per la colpevolezza di monsieur Pétit.»
«Quando?»
«Ieri.»
«Sono stati veloci.»
«Il pubblico ministero mi ha chiamato, e tra l'altro mi ha anche detto che secondo lei la sua testimonianza è stata decisiva.» LaManche guardò i fogli che avevo in mano. «Ma vedo che non è questo il motivo per cui è qui.»
«Infatti. Ho i risultati della datazione al carbonio 14.»
«Anche loro sono stati veloci.» Sorpreso.
«Quel laboratorio è molto efficiente.» Non feci cenno al costo aggiuntivo.
LaManche si alzò e sedette con me al tavolo ovale accanto alla sua scrivania. Allargai i fogli sul ripiano e per qualche secondo entrambi li osservammo.
«Ci sono due variabili interessanti» iniziai. «La radioattività di uno standard conosciuto, e la radioattività di un campione sconosciuto. Abbiamo già parlato del fenomeno dei test nucleari nell'atmosfera e del loro effetto sui livelli di carbonio 14, quindi, per semplificare, supponiamo che il valore standard del carbonio 14 nel 1950 sia del 100 per cento. Qualsiasi valore superiore corrisponde al carbonio delle "bombe" o carbonio moderno, e indica una data di morte posteriore al 1950.»
Indicai l'ultima cifra in una colonna nominata «Età misurata con il radiocarbonio».
«Il pMC per il caso LSJML 38428 è 120,5. Più o meno 0,5.»
«Una percentuale di carbonio moderno significativamente superiore a quel 100 per cento.»
«Esatto.»
«Il che significa che questa ragazza è morta dopo il 1950.»
«Esatto.»
«Quanto tempo dopo il 1950?»
«Questo è più complicato. Quando nel 1963 gli esperimenti nucleari nell'atmosfera sono stati vietati, i valori di pMC si sono innalzati fino al 190 per cento. Ma quello che sale prima o poi deve anche scendere. Quindi, un valore del 120 per cento potrebbe indicare un punto sulla parte ascendente della curva, cioè di un periodo in cui i livelli stavano salendo, oppure un punto sulla parte discendente, quando al contrario i valori si stavano abbassando.»
«Conclusione?»
«La morte di queste ragazze può risalire alla fine degli anni Cinquanta oppure alla seconda metà degli anni Ottanta.»
LaManche assunse un'aria delusa.
«Non è ancora finita. L'attuale valore di pMC si aggira intorno al 107 per cento.» Indicai le cifre relative ai casi LSJML 38426 e LSJML 38427.
«Mon dieu!»
«Queste ragazze possono essere morte o nei primi anni Cinquanta, o nei primi anni Novanta.»
«Informerà monsieur Claudel di questi risultati?»
«Certamente.» E con grande soddisfazione.
LaManche unì le mani davanti alla bocca e tamburellò con le dita sulle labbra.
«Se queste ragazze sono scomparse negli ultimi vent'anni, è probabile che siano state inserite nel database. Dobbiamo mandare i dati al CPIC.»
LaManche si stava riferendo al Canadian Police Information Center, l'equivalente dell'organismo statunitense del NCIC, o National Crime Information Center.
Sia il CPIC sia il NCIC, gestiti rispettivamente dalla Royal Canadian Mounted Police e dall'FBI, sono raccolte computerizzate di informazioni relative alla giustizia penale, e comprendono gli elenchi dei reati penali commessi, dati sugli oggetti rubati, sulle persone in fuga e sulle persone scomparse. I due database sono disponibili per le forze dell'ordine e per gli organismi che si occupano a vario titolo dei reati penali ventiquattr'ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all'anno.
Quando ci alzammo, LaManche mi mise una mano sulla spalla.
«Adesso dovremo impegnarci molto, Tempe. Dobbiamo andare a fondo di questa cosa.»
«Certamente» risposi con altrettanta soddisfazione.
Trenta secondi dopo ero già nel mio ufficio al telefono con Claudel, anche se il contributo al dialogo del tenente della CUM era davvero minimo.
«Non così veloce.»
«3-8-4-2-6» ripetei con la velocità di un bradipo che parla francese. «Femmina.» Pausa. «Bianca.» Pausa. «Tra i sedici e i diciotto.» Pausa. «Altezza tra i 145 e i 155 centimetri.»
«Denti?» Il tono di Claudel avrebbe potuto essere usato per falciare il grano.
«Niente otturazioni. Ma ho eseguito delle radiografie postmortem.»
«Queste sono le ossa trasferite nella cassa, giusto?»
«Sì.»
«Il prossimo.»
«38427. Femmina. Bianca. Età quindici-diciassette. Altezza 160-168 centimetri. Niente otturazioni.»
«Le ossa recuperate dal primo avvallamento?»
«Sì.»
«Continui.»
«38428. Femmina, bianca, età diciotto-ventidue, 162-168 centimetri di altezza, frattura di Colles saldata sulla parte distale del radio destro.»
«Il che significa?»
«Che si è fratturata il polso destro diversi anni prima di morire. La frattura di Colles si verifica tipicamente quando le mani vengono utilizzate istintivamente per proteggersi da una caduta.»
«Le ossa del secondo avvallamento?»
«Sì.»
«Segni caratteristici?»
«Una era bassa. Una si era fratturata un braccio.»
«Se queste persone sono morte negli anni Cinquanta, è una perdita di tempo.»
«I loro parenti potrebbero non essere d'accordo.»
«A quest'ora i parenti chissà dove sono. Ammesso che siano ancora vivi.»
«Queste ragazze sono state sepolte nude in uno scantinato.»
«Se queste ragazze c'entrano qualcosa con Cataneo, probabilmente erano puttane.»
Profondo respiro. Il tenente Claudel non si smentiva mai.
«Sì, forse erano prostitute, colpevoli di essere persone ignoranti e bisognose. O forse erano ragazze scappate di casa, colpevoli di sfortuna e di scarsa capacità di giudizio. E potrebbero anche essere ragazze normali, strappate alla loro vita e colpevoli di niente. Comunque, a prescindere da chi siano queste tre ragazze, monsieur Claudel, si meritano qualcosa di più di essere sepolte in una cantina schifosa e puzzolente. Anche se non siamo riusciti ad aiutare queste ragazze quando sono morte, forse potremmo impedire che altre in futuro facciano la loro fine.»
Claudel fece una lunga pausa. Poi: «Ha detto che gli scheletri non riportano segni di violenza».
Ignorai la sua domanda. «Come entrambi sappiamo» pausa, per far capire a Claudel che sapevo della sua visita a Cyr, «l'edificio attualmente appartiene a Richard Cyr. E come io ho scoperto, il proprietario precedente era Nick Cataneo, e il periodo in cui Cataneo era in possesso dell'edificio corrisponde a uno dei periodi indicati dalla datazione al carbonio 14.»
Il silenzio che seguì fu lunghissimo e ostile.
«Lei si rende conto del numero di possibilità che questa informazione introduce?»
Sì, me ne rendevo conto.
«Riesaminerò le ossa per vedere se trovo qualcosa che possa esserle di ulteriore aiuto.»
«Sì, direi che è il caso.»
Tu-tuuu...
Nel corso degli anni, ho concluso che Claudel è semplicemente un uomo rigido e ostinato, più che detestarlo. Ma quel caso minacciava di produrre un'inversione di tendenza nelle mie convinzioni.
Rapida discesa ai piani inferiori per un caffè.
Rapida chiamata ad Anne per proporle di pranzare insieme.
Ma come temevo, Anne rifiutò.
Le raccontai della datazione al carbonio 14.
«Tu sei molto occupata con le tue ossa, Tempe. È meglio se io me ne sto tranquilla qui a casa.»
«D'accordo. Però se cambi idea, fammelo sapere. Sono un'amica molto flessibile.»
Quando ci salutammo, liberai i due tavoli operatori del laboratorio e il piano di lavoro e vi appoggiai i tre scheletri. Stavo esaminando la tibia della ragazza nella cassa di Dottor Energy, quando entrò Marc Bergeron.
Dire che Bergeron è un uomo dall'aspetto originale sarebbe come dire che la melassa è un filino dolce. Con il metro e novanta, la schiena sempre curva, e i suoi ottanta chili di peso circa, Bergeron ha tutta la grazia e la coordinazione di una cicogna che cammina.
Marc Bergeron è l'odontologo forense della provincia del Québec. Ormai da trent'anni trapana e ottura i vivi dal lunedì al giovedì, ed esamina i denti dei morti il venerdì.
Ci salutammo e subito gli espressi la mia sorpresa nel vederlo in Istituto di giovedì.
«Matrimonio in famiglia. Domani devo essere a Ottawa.»
Bergeron si avvicinò a un armadietto, prese un camice da un attaccapanni e se lo infilò. Addosso a lui, i camici facevano l'effetto di un lenzuolo su uno spaventapasseri.
«Chi sono queste persone?» domandò indicando gli scheletri.
«Trovati nello scantinato di una pizzeria.»
«Osservazioni sul cibo?»
«Non direi.»
«Morti antichi?»
«So solo che sono morti dopo il 1950. Idee?»
Bergeron si sistemò il colletto e i capelli. I suoi proverbiali capelli candidi e crespi partivano a un chilometro dalla fronte e crescevano verticali avvolgendogli parte della testa in una nuvola bianca. E contro ogni logica estetica, Bergeron li lasciava crescere pressoché incolti.
«La datazione al carbonio 14 sembrerebbe indicare che il decesso è avvenuto o negli anni Cinquanta, o negli anni Ottanta e Novanta.»
Bergeron prese una penna ottica da un cassetto, sollevò il cranio dello scheletro trovato nella cassa ed esaminò le arcate dentarie.
«Igiene orale molto scarsa. Hai estratto un molare per farlo analizzare?»
Annuii.
«Immagino che tu abbia già richiesto l'esame radiologico?»
Staccai una busta marroncina dal fascicolo del caso LSJML-38426 e sistemai dieci porzioni di pellicola sul diafanoscopio. Bergeron li studiò attentamente, con la sua chioma di soffione elettrizzata dalla fluorescenza dello strumento.
«A parte un generale deterioramento, direi che non vedo granché di particolare. Il canino superiore destro è leggermente ruotato.» Indicò una radiografia con una delle sue dita nodose.
«Stima dell'età?»
«Sedici, forse diciotto.»
«Anche per me.»
Beigeron passò al caso LSJML 38428.
«Questo scheletro è stato sepolto in un involucro di cuoio.»
«Sul corpo è stata eseguita un'autopsia?»
«In che senso?» La sua domanda mi colpì.
«Questi tagli sull'osso temporale. Potrebbero essere stati inferti durante il distaccamento del cuoio capelluto.»
«Non l'avevo preso in considerazione.»
Portai il cranio al microscopio da dissezione e studiai i segni sotto lenti di ingrandimento sempre più potenti. Bergeron continuò il suo ragionamento.
«Forse si tratta di vecchi campioni biologici, o di scheletri per l'insegnamento. Forse qualcuno li teneva per curiosità, e in seguito ha perso interesse, oppure ha pensato che averli fosse rischioso.»
Questo l'avevo considerato. Era una possibilità relativamente probabile.
«Non ci sono fori prodotti dalla trapanazione, non ci sono frammenti di fil di ferro, nessun segno di trattamento chimico o di modifiche meccaniche. Quindi non si tratta di ossa assemblate per essere esposte.»
Sotto la lente d'ingrandimento, i segni temporali apparivano come ampie vallate dal fondo a V. Alcuni correvano paralleli all'apertura auricolare, altri si distribuivano casualmente intorno a essa. La microscheggiatura lungo i bordi suggeriva che il danno si era verificato quando l'osso era secco e scarnificato.
«Questi segni non derivano dal bisturi. La sezione trasversale mostra che sono troppo ampi. Inoltre, l'allineamento è più casuale di quanto in genere si verifica con i segni lasciati da un'autopsia.»
Uno strano pensiero si presentò con discrezione alla mia mente.
Perché quella forma a V? Non è tipica di un danno da abrasione.
«Questo scheletro ha problemi dentari notevolmente inferiori.»
Alzai lo sguardo. Bergeron era passato al secondo tavolo e stava esaminando i frammenti di mandibola del caso LSJML 38427.
«Le apicali sono nel fascicolo.» Indicai una cartellina gialla accanto alle ossa.
Bergeron sistemò le radiografie sul diafanoscopio.
«Questa potrebbe essere leggermente più giovane. Direi tra i quindici e i diciassette.»
«Per caso noti qualcosa di caratteristico?»
Bergeron scosse la testa e la nuvola bianca oscillò.
L'odontologo posò i frammenti di mandibola sul tavolo e passò al caso 38428.
Dopo aver esaminato il cranio con la penna ottica, disse: «Mi sembra che su questo ci sia...». La voce di Bergeron si interruppe.
«Che cosa?»
L'odontologo scambiò il cranio con la mandibola e puntò il raggio di luce sull'arcata inferiore.
«Sì.»
Io lasciai il microscopio e lo raggiunsi.
«Che cosa?»
«Questo dovrebbe chiarire i tuoi dubbi riguardo l'incertezza delle date di morte.»
E mi passò il cranio e la penna ottica.
21
«Sposta il raggio di luce avanti e indietro sui molari.»
Feci come diceva Bergeron.
«Non vedi una specie di lucentezza tra le pieghe dello smalto?»
Non la vedevo.
«Sposta la luce.»
Bergeron aveva ragione. La lucentezza di cui parlava era vaga ma presente negli anfratti della superficie del dente.
«Che cos'è?»
«Se non sbaglio, i molari dovrebbero essere stati trattati con un sigillante per fori e fessure.»
Quando alzai lo sguardo, Bergeron stava andando al microscopio. Decisamente, quell'uomo non era il ritratto dell'armonia motoria.
«Il sigillante è un sottile rivestimento di resina che viene applicato sulla superficie di mastificazione di molari e premolari. Si spennella come un liquido e nel giro di non più di un minuto si indurisce formando uno strato protettivo.»
«Lo scopo?»
«Serve a prevenire la carie occlusale. La degenerazione del dente.»
Bergeron infilò la mandibola inferiore del caso LSJML 38428 sotto la lente del microscopio, guardò dentro l'oculare e mise a fuoco.
«Oui, madame. Si tratta di un sigillante.»
Le ali della speranza mi frullarono nel petto.
«Quando entrarono in uso questi sigillanti?»
«I primi sigillanti disponibili sul mercato iniziarono a essere proposti ai dentisti all'inizio degli anni Settanta. E il loro uso si è attestato a partire dagli anni Ottanta.» Bergeron parlava senza distogliere lo guardo dal microscopio.
Il frullo diventò un volo spiegato.
La morte della ragazza nell'involucro di cuoio non poteva essere avvenuta negli anni Cinquanta. Per esclusione, doveva risalire ai tardi anni Ottanta!
Cercai di mantenere un tono di voce rilassato.
«Questi sigillanti sono molto comuni?»
«Sì, molto. E questo dal punto di vista forense ovviamente non è un bene. Gran parte dei dentisti per bambini, per esempio, oggi consigliano l'applicazione del sigillante subito dopo l'eruzione dei molari permanenti. E da almeno vent'anni, negli Stati Uniti, le scuole di quasi tutti gli Stati hanno adottato programmi di cura indirizzati in tal senso. Il Canada è leggermente indietro, ma anche qui i sigillanti si sono molto diffusi a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta.»
Bergeron spense la penna a fibra ottiche.
«Anche se i sigillanti non hanno aiutato granché questa ragazza.» E indicò con il mento lo scheletro della cassa di bibite. «Lo stato della sua dentizione è decisamente peggiore rispetto all'altra ragazza.»
«Quindi, potrebbe aver frequentato un dentista fino a un certo punto, e poi aver smesso di curare l'igiene dei denti.»
«E questo è uno schema tipico dei ragazzi che fuggono di casa. I genitori li mandano dal dentista durante il periodo dello sviluppo, e poi quando il ragazzo inizia la sua vita vagabonda, l'alimentazione e l'igiene orale vanno a farsi benedire, e i denti ne patiscono.»
«Quanti anni potrebbe avere?»
Bergeron tornò al diafanoscopio e studiò le radiografie del caso LSJML 38428.
«Leggermente più grande delle altre due. Direi tra i diciotto e i ventun anni.»
Di nuovo, l'età stimata dall'odontologo corrispondeva a quella che avevo desunto dall'esame delle ossa.
«Sugli altri due scheletri, hai notato tracce di questo sigillante?»
Bergeron riesaminò le arcate dentarie dei casi 38426 e 38427. Nessuno di quei denti era stato trattato con i sigillanti.
«Un vero peccato che non ci siano otturazioni. Tienimi al corrente e fammi sapere se posso esserti ancora d'aiuto.»
«Quello che mi hai detto è stato di grandissimo aiuto.»
Tornai subito nel mio ufficio e chiamai Claudel.
Lui e Charbonneau erano impegnati con un'intervista e non potevano essere disturbati. Lasciai un messaggio chiedendo di essere richiamata prima possibile.
Tornai in laboratorio e andai a prendere un segmento di mandibola che Bergeron aveva lasciato accanto al microscopio. Mentre lo riunivo al suo scheletro, notai una piccola tacca sul condilo mandibolare destro.
Tornai subito al microscopio.
Spostando la fibra ottica sulla superficie dell'osso, trovai altre due tacche sul ramo ascendente e un minuscolo solco all'angolo mandibolare.
Controllai la porzione sinistra della mandibola.
Niente tacche né solchi.
Uno a uno, esaminai con cura i frammenti isolati che si erano staccati dallo zigomo destro e dalle ossa temporali.
La fibra ottica individuò sei solchi superficiali, ciascuno di circa cinque millimetri di lunghezza, raggruppati in tre coppie distinte.
Un'altra pacca sulla spalla per me.
Aumentai l'ingrandimento.
Le tacche e i solchi, anche se ovviamente non erano naturali, avevano un aspetto differente da quelli sul caso 38428. Avevano la stessa forma a V, ma qui la sezione trasversale li indicava più stretti, e non scheggiati lungo il margine.
Come i segni lasciati da un bisturi. Sull'osso fresco.
Mi appoggiai allo schienale, riflettendo su ciò che quei segni potevano significare.
Nella mente, ricostruii il cranio con i vari frammenti che avevo, e rimisi al suo posto la mandibola.
I tagli circondavano il foro auricolare.
Che diavolo era successo?
Coincidenza? O qualcosa di più macabro?
Stavo per riesaminare il cranio e la mandibola dello scheletro nella cassa di Dottor Energy, quando notai Charbonneau dalla finestra sopra il lavandino. Gli indicai con un gesto di andare nel mio ufficio, mentre io mi toglievo i guanti e mi lavavo le mani.
Quando entrai, trovai Charbonneau seduto davanti alla mia scrivania nella sua solita posizione: gambe larghe e spalle abbandonate sullo schienale. Quel giorno indossava una giacca color mirtillo più lucida del sigillante per i denti.
«Monsieur Claudel è in riunione con il comitato per il Premio Nobel, questa mattina?»
Charbonneau alzò gli occhi al cielo e allargò le braccia.
«Ma come? Sta dicendo che io non vado bene? E poi oggi Luc è davvero molto impegnato.»
«Immagino che si starà provando un altro Ermenegildo Zegna.»
Charbonneau mi guardò come se avessi parlato etrusco.
«È uno stilista. Fa completi da uomo» spiegai.
Charbonneau trattenne un sorriso. «Si sta occupando della lista di inquilini di Cyr.»
«Davvero?» Le mie sopracciglia si alzarono per la sorpresa.
«Ha telefonato Authier.»
LaManche probabilmente aveva chiamato il suo capo, che aveva chiesto a Claudel di svolgere indagini più serie sul caso delle ossa trovate nello scantinato della pizzeria.
«Non credo che il suo collega sia molto contento per questa telefonata.»
«Diciamo che la considera un caldo suggerimento.»
Spiegai a Charbonneau ciò che mi aveva detto Bergeron.
«Quindi è convinto che sia davvero questo sigillante?»
«Assolutamente. Credo che potremmo considerare il suo parere quello che i giornalisti chiamano una "conferma da fonte indipendente".»
«Quindi, secondo Bergeron almeno una delle tre ragazze è morta negli anni Settanta o più tardi.»
«E la datazione al carbonio 14 limita i decessi agli anni Cinquanta o agli anni Ottanta.»
«Immagino che in questo caso si parli di anni Ottanta?»
«Immagina giusto.»
«È la ragazza con il polso fratturato?»
Annuii. «Lo scheletro nell'involucro di cuoio.»
«Bastardi.» Charbonneau si alzò dalla sedia. «Inserisco subito i dati nel database.»
Charbonneau si era appena richiuso la porta alle spalle che il mio telefono squillò. Era Arthur Holliday, dalla Florida.
«Hai ricevuto il referto sulla datazione al carbonio 14?»
«Sì, grazie. Ti ringrazio molto per essere stato così rapido.»
«Il nostro obiettivo è soddisfare le vostre richieste. Ascolta, Tempe, forse ho ancora qualcosa per te.»
In effetti avevo dimenticato che Arthur mi aveva proposto un esame aggiuntivo.
Ai fini processuali, il test degli isotopi di stronzio è ancora in via sperimentale. Ma abbiamo già applicato la tecnica in ambito forense. In un caso, abbiamo individuato la zona di origine di sei cervi dalla coda bianca. Abbiamo utilizzato le corna. Ovviamente, sapevamo che gli animali dovevano essere arrivati da uno dei due Stati, perciò avevamo delle aree geografiche distinte dal punto di vista isotopico da cui misurare i gruppi di controllo. E questo ci ha facilitato il compito.
Nel corso degli anni, ho imparato che è impossibile mettere fretta ad Arthur Holliday. Sicché, non si può far altro che seguire la corrente, ascoltando senza troppa attenzione il lungo preambolo e concentrandosi poi sulle conclusioni.
«Stiamo ottenendo buoni risultati analizzando i modelli di immigrazione e insediamento delle antiche popolazioni.»
La frase mi portò nel mondo dell'archeologia.
«Per caso voi siete il gruppo che analizza il materiale dei pueblos in Arizona?»
«Tombe del Tredicesimo e Quattordicesimo secolo. La costruzione e l'occupazione di alcuni fra i pueblos più importanti si sono spalmate su più generazioni. Centinaia di persone le hanno occupate, probabilmente un misto di residenti a lungo termine e immigranti provenienti da fuori. Stiamo cercando di stabilire proprio questo.»
«L'analisi degli isotopi dello stronzio è in grado di distinguere le persone di recente insediamento dagli abitanti originari all'interno di una zona?»
«Esatto.»
Di nuovo, mi sentii un frullo d'ali nel petto.
«Questa tecnica quindi può stabilire dove una persona ha vissuto?»
«Sempre che esistano dei campioni di riferimento. In alcune circostanze, se un soggetto si è spostato da una regione all'altra, l'analisi dello stronzio può dire dove il soggetto è nato, e dove ha trascorso gli ultimi sei, dieci anni della sua vita.»
A quel punto nel petto mi sentii un volo ad ali spiegate.
«Ferma tutto e riprendi dall'inizio.» Presi carta e penna. «E non usare parole più lunghe di tre sillabe.»
«Ci sono quattro isotopi stabili dello stronzio e uno di questi, lo stronzio 87, è prodotto dal decadimento radioattivo del rubidio 87, che ha un tempo di dimezzamento pari a 4,88 per 1010 anni. Cioè quasi quarantanove miliardi di anni.»
«Quindi molto più lento del carbonio 14.»
«Più lento del mio vecchio cane Spud.»
Spud?
«La geologia del Nordamerica presenta notevolissime variazioni quanto all'età di formazione» proseguì Arthur, ignorando la mia confusione riguardo al riferimento al suo cane. «Per esempio, l'età della crosta terrestre varia da meno di un milione di anni nelle Hawaii a quattro miliardi di anni in alcune zone dei territori del Nord-Ovest, in Canada.»
«Il che produce delle differenze nei valori dello stronzio presenti nel terreno e nella roccia madre delle diverse regioni» dissi io.
«Sì. Ma queste differenze sono anche dovute alle variazioni nella composizione della roccia madre.»
«Quando usi il termine "valore", intendi il rapporto tra lo stronzio instabile e quello stabile?»
«Per l'appunto. Ciò che conta è proprio il rapporto tra l'isotopo stronzio 87 e l'isotopo stronzio 86, e non il livello assoluto di ciascuno.»
Lo lasciai proseguire.
«Per esempio, le lave basaltiche, la pietra calcarea e i marmi presentano tassi di stronzio molto bassi, mentre nelle arenarie, negli scisti e nel granito, questo rapporto è generalmente molto elevato. Nei minerali di argilla, poi, si trovano i tassi più elevati.»
«Quindi, in regioni geografiche diverse, le differenze che si riscontrano nell'età geologica o nella composizione della roccia madre producono variazioni nei tassi dell'isotopo dello stronzio.»
«Precisamente. Ma un'ultima cosa da tenere presente è che, vista la difficoltà con cui si ricordano i tassi a causa di tutti quei decimali, in genere confrontiamo il tasso di stronzio misurato con il tasso di stronzio medio di tutta la terra. Se il tasso misurato è maggiore di questo, otterremo un valore positivo. Se invece è inferiore, il valore sarà negativo.»
«Tutto questo che cosa c'entra con la determinazione del luogo di nascita di una persona?»
«Lo stronzio appartiene al gruppo dei metalli alcalino-terrosi, che presenta proprietà chimiche simili a quelle del calcio.»
A quel punto fu facile trovare il nesso. «Lo stronzio presente nel terreno e nell'acqua viene assorbito dalle piante. Gli erbivori mangiano le piante, e così via lungo la catena alimentare.»
«In altre parole: siamo ciò che mangiamo.»
«Quindi la composizione dell'isotopo dello stronzio nelle ossa e nei denti di un individuo riflette la composizione degli alimenti di cui l'individuo si è nutrito nel periodo in cui quelle parti corporee erano in fase di sviluppo.»
«Esattamente.»
«Ricordo che mia nonna si preoccupava della quantità di stronzio che ingeriva.»
«E non era la sola. L'elaborazione biologica dello stronzio fu studiata in modo estensivo durante gli anni Cinquanta per indagare la potenziale ingestione di stronzio 90, pericolosissimo per l'uomo, dovuta agli esperimenti al suolo delle armi nucleari.»
Iniziavo a vedere la luce.
«In altre parole, stai dicendo che lo stronzio è un elemento costitutivo delle ossa e dei denti, proprio come il calcio.»
«Esatto.»
«E il calcio nello scheletro umano viene sostituito all'incirca dopo un ciclo di sei anni.»
«Già.»
«Quindi, al pari del calcio scheletrico, anche lo stronzio scheletrico riflette l'alimentazione degli ultimi sei anni di vita di un individuo.»
«Tra i sei e i dieci anni» precisò Arthur.
«Ma i livelli del calcio presenti nello smalto dei denti non variano, come invece accade per il calcio presente nelle ossa. Una volta formato, lo smalto è stabile.»
«E lo stesso si può dire per lo stronzio. Quindi lo smalto dei denti continua a riflettere la stessa composizione isotopica dello stronzio presente nella dieta al momento della formazione del dente.»
«Perciò, se qualcuno si allontana dal luogo di origine quando i denti sono in formazione, i livelli di stronzio nei denti e nello scheletro saranno differenti. Se invece la persona non si sposta, quei livelli rimangono simili.»
«Precisamente. I valori dello smalto in genere indicano il luogo di nascita e di residenza nella prima infanzia. I valori delle ossa, invece, indicano il luogo di residenza degli ultimi anni di vita.»
Un pensiero mi fece smettere di annotare quelle informazioni.
«Ma ai giorni nostri, il cibo ci arriva anche da luoghi molto lontani.»
«Vero. Però beviamo acqua locale. Almeno, quasi sempre.»
«Vero. Dimmi che cosa hai fatto con i miei campioni.»
«Dopo aver asportato tutto il materiale estraneo, li abbiamo polverizzati. Quindi abbiamo separato lo stronzio per mezzo della cromatografia a scambio ionico, analizzato lo stronzio purificato utilizzando la spettrometria di massa a ionizzazione termica, infine raccolto i tassi di stronzio attraverso l'analisi del multi-collettore dinam...»
«Arthur.»
«Dimmi.»
«Che cosa hai trovato?»
«Una delle tre ha visto una bella fetta di mondo.»
22
«Vai avanti.»
«Innanzitutto, parliamo dei denti. Due dei tre individui si sovrappongono rispetto ai valori dello stronzio presenti nei denti.»
«Quali?»
Frusciare di fogli.
«Vediamo i casi 38426 e 38427. Per queste persone, mi aspetterei un'alimentazione infantile con un valore medio di stronzio compreso fra +90 e +105. Il 38428 è statisticamente distinto. La composizione dell'isotopo di stronzio del campione dentario riferito a quell'individuo suggerisce una dieta infantile con un valore medio dello stronzio compreso fra +50 e +60.»
«Il che significa che il 38428 non è nato nella stessa regione degli altri due.»
«Giusto.»
«Sapresti dire da dove proviene?»
«È proprio questo l'interessante. L'anno scorso abbiamo avuto un caso di resti mischiati, trovati in un barile nascosto nel seminterrato di una casa di Detroit. La polizia sapeva che le vittime erano soci in affari dello spacciatore proprietario della casa, ma volevano che le ossa fossero suddivise per individuo. Nessuno aveva otturazioni, erano tutti neri sui venticinque anni, e più o meno della stessa altezza e corporatura. Uno dei tre era nato in California, l'altro in Kansas e l'ultimo era un talento locale, del Michigan.
«Non avevamo a disposizione gruppi di controllo delle tre zone in questione, così abbiamo dovuto ricavare la composizione isotopica dello stronzio alimentare dalla geologia di ciascuna regione geografica, e poi applicarla alle varie ossa trovate nel barile. Mi segui?»
«Ti seguo.»
«Qualcuno che ha trascorso l'infanzia nella zona centrosettentrionale della California dovrebbe presentare valori compresi tra +30 e +60.» Fruscio di fogli. «Ed è esattamente in questo range che ricadono i valori del caso 38428.»
Per un attimo rimasi senza parole.
«Significa che la mia ragazza potrebbe essere californiana?»
«Significa che potrebbe esserlo. Se non hai altre idee, è un punto di partenza come tanti altri. Ovviamente, potrebbe anche provenire da un'altra regione geografica con caratteristiche geologiche simili.»
«E le altre sconosciute?»
«Un paio di anni fa abbiamo avuto un caso che riguardava certi resti umani di varia provenienza recuperati in una fossa comune nel Vietnam. Si trattava di due soldati di cui erano note le identità, ma l'esercito voleva che le ossa fossero separate e attribuite ai rispettivi individui. Un soldato era cresciuto nel Vermont nordorientale, l'altro era dello Utah.»
Arthur non diede il tempo di interromperlo.
«Uno studio della composizione dell'isotopo di stronzio delle falde freatiche vicino a St. Johnsbury suggeriva valori compresi tra +84 e +94. I denti di uno dei soldati avevano valori perfettamente compresi in questo range.»
«Quello nato in Vermont.»
«Sì. I denti del caso 38426 e del caso 38427 hanno gli stessi valori.»
«Questo significa che le due ragazze sono del Vermont?»
«Attenzione, non così in fretta. Le stesse formazioni rocciose si estendono oltre il confine e raggiungono il Québec. Ciò che voglio dire è che i valori dello stronzio delle due ragazze sono coerenti con quelli che mi aspetterei di trovare nelle persone nate nella regione in cui i resti sono stati trovati.»
«La zona di Montréal.»
«Sì. Adesso parliamo delle ossa. Per i casi 38426 e 38427, i valori dello stronzio presenti nei denti sono simili a quelli presenti nelle ossa.»
«Il che lascerebbe pensare che non si sono allontanate troppo da casa.»
«Giusto. Ma per il caso 38428 le cose non stanno così.»
Attesi senza interrompere.
«I valori dello stronzio di questo scheletro sono superiori ai valori dello stronzio dei denti. Inoltre, questi valori dello stronzio presenti nello scheletro sono molto simili ai valori scheletrici dello stronzio presenti negli altri due casi.»
«Le ragazze del Québec che non si sono allontanate troppo da casa.»